L’AFFAIRE BETTENCOURT E IL RIDICOLO TENTATIVO DEI GIUDICI FRANCESI DI BLOCCARE LA RETE
Alberto Mattioli per "la Stampa"
Come in ogni buon feuilleton, anche nello scandalo Bettencourt ogni giorno porta, da tre anni, la sua nuova puntata. Con l'ultima, però, si passa da Dumas a Re Ubu. Udite, udite: la Corte d'appello di Versailles ha condannato il sito d'informazione «Mediapart» a far sparire dalla rete tutti gli estratti o le trascrizioni delle famigerate registrazioni clandestine del maggiordomo di Liliane Bettencourt.
Come ordinare a Pandora di chiudere il vaso, dopo che proprio quei nastri, pubblicati il 16 giugno 2010, hanno scatenato uno tsunami di rivelazioni, inchieste, sentenze, polemiche, spiate, perquisizioni e dimissioni. Una vicenda iniziata come una pochade e che ha finito per far vacillare la République, o almeno la sua Casta. «The french Watergate», secondo il «New York Times».
All'«affaire» non manca nulla. C'è la magnate 87enne un po' andata di testa, proprietaria dell'Oréal e terza fortuna di Francia stimata a 18 miliardi di euro, trasformata in una specie di bancomat umano che distribuisce centinaia di milioni ad affascinanti protegé o a politici evidentemente convincenti. C'è la figlia biblista, Françoise Bettencourt Meyers, che chiede e ottiene l'interdizione della madre.
C'è il fotografo dandy, François Marie Banier, che frequenta madame Bettencourt e riceve dall'Oréal 993 milioni di euro per imprecisate «consulenze». C'è il maggiordomo infedele, Pascal Bonnefoy, che con il registratore nascosto documenta le pressioni e le angherie sulla padrona, ma anche i suoi conti offshore e i versamenti in nero all'Ump, il partito di centro-destra. C'è Eric Woerth, ministro sarkozysta prima del Bilancio e poi del Lavoro, la cui moglie lavora, guarda caso, nella società che gestisce la fortuna dei Bettencourt e che finisce per dimettersi travolto dallo scandalo.
Non basta? Ci sono le inchieste che si accavallano e si contraddicono e non finiscono mai, anche perché ci sono procuratori che vogliono insabbiare e giudici istruttori che invece vogliono indagare. Ci sono i giornalisti che si occupano del caso i cui telefoni vengono intercettati dai servizi e i cui computer risultano misteriosamente rubati. E soprattutto c'è Nicolas Sarkozy, accusato di far visite notturne a casa Bettencourt e di uscirne con valigette piene di euro per la sua campagna elettorale del 2007.
L'ex Presidente viene torchiato per otto ore di fila da un giudice di Bordeaux ma si salva perché si scopre che quest'ultimo ha delle relazioni davvero pericolose con la dottoressa incaricata (da lui) di valutare la salute mentale della miliardaria. E i sarkozysti sparano ad alzo zero contro la magistratura «politicizzata» (eh sì, tutto il mondo è Belpaese).
Adesso, come nel gioco dell'oca, anzi il Monopoli visto che i soldi sono onnipresenti, si riparte dal via. In uno degli innumerevoli processi, quello per l'«attentato alla vita privata» di Liliane, insomma i nastri, dopo sentenza, appello, Cassazione e nuovo appello, dei giudici evidentemente convinti di vivere nel 1950 ordinano a Mediapart di far sparire ogni traccia delle registrazioni che hanno scatenato tutto il putiferio. Otto giorni di tempo, pena 10 mila euro di multa per giorno di ritardo e per infrazione constatata. Come se dalla rete fosse possibile far sparire alcunché. Sono 894 articoli e 1.615 commenti di lettori solo per Mediapart, ricorda il suo direttore, Edwy Plenel.
Insorgono i giornalisti. I siti concorrenti si offrono di pubblicare quel che Mediapart non può più pubblicare. Molti politici chiedono di revisionare la legge. Plenel ricorda che proprio a Versailles, nel 1898, fu condannato Emile Zola per il suo «J'accuse!». Anni dopo, quando fu chiaro che Dreyfus era davvero innocente, Zola chiese ai giudici «semplicemente, di dire se c'è crimine a volere la verità ». Che brutto «affaire».
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