L’EGITTO AI PIEDI DI AL SISI: MINACCIA ULTIMATUM, POI CI RIPENSA, ATTACCA I FRATELLI MUSULMANI, TRATTA CON GLI USA, ACCUMULA CARICHE E PUNTA ALLA PRESIDENZA

1 - I DUE VOLTI DI AL-SISI, SULLE ORME DI NASSER
Ugo Tramballi per il "Sole 24 Ore"

«L'uomo delle forze armate conferma a Vostra eccellenza la loro assoluta lealtà all'Egitto e al suo popolo, compatte dietro la sua leadership, guardiani delle responsabilità patriottiche». Dopo aver letto il telegramma che il generale aveva mandato al neo-presidente Morsi, il portavoce dei Fratelli musulmani Gamal Hishmat, aggiunse convinto che Sisi era «un patriota al cento per cento».

È passato poco più un anno e oggi è probabile che Hishmat sia con Morsi fra le centinaia di islamisti che Sisi ha fatto chiudere in galera. Forse la Storia ha un nuovo Bruto da aggiungere alla lista di coloro che hanno tradito Cesare. E, come per la gran parte dei suoi predecessori in questo ruolo, non sarà mai del tutto chiaro se Abdel Fattah al-Sisi, 59 anni a novembre, abbia abbattuto il suo Cesare per salvare la Patria e la repubblica da una dittatura religiosa o solo per prenderne il posto.

A Mohamed Morsi, al-Sisi deve la parte più importante della sua carriera. Appena diventato primo presidente realmente eletto nella storia d'Egitto, l'ex candidato della Fratellanza lo aveva elevato al grado di generale, nominato capo di stato maggiore delle forze armate, ministro della Difesa e della Produzione militare: cioè controllore e amministratore del forziere dal contenuto in gran parte segreto, dei militari.

In cambio di tanta fiducia, di lì a qualche settimana al-Sisi avrebbe fatto fuori tutta la vecchia guardia delle forze armate, dalla quale aveva pure avuto tanto. Il generale Tantawi, il capo delle forze armate e del Consiglio supremo che aveva governato l'Egitto per più di un anno da piazza Tahrir all'avvento di Morsi, gli aveva affidato il sensibile comando dei servizi segreti militari; poi lo aveva cooptato nel Consiglio, come membro più giovane.

Nell'ultimo mese in Egitto è cambiato di nuovo tutto: chi era al potere è in galera e chi era all'opposizione ora comanda. Solo Sisi ha mantenuto tutte le cariche, aggiungendo quella di vice-presidente del governo nominalmente civile che lui stesso ha creato. È questa ultima qualifica, apparentemente non necessaria, che ha alimentato i sospetti sull'uomo più potente del Paese, il cui volto appare nei manifesti dei sostenitori accanto a quello di Nasser.

Quello che sta crescendo attorno a lui, fra la gente e sulla stampa, si chiama culto della personalità. Un paio di settimane fa il portavoce militare ha negato che Sisi voglia diventare presidente. Immediatamente dopo ha ricordato che in ogni caso nulla gli impedirebbe di candidarsi.

Golpe o colpo di mano popolare, Sisi lo ha fatto per imporre una guida civile o diventare lui presidente, replicando con qualche modernità il potere che fu di Nasser, Sadat e Mubarak? E il suo obiettivo è uno Stato laico, avendo estromesso i Fratelli musulmani, o militar-islamico?

La definizione di "laico" va usata con scrupolo nel mondo arabo. Le società civili, quella egiziana più delle altre, sono religiosamente conservatrici. Ma anche fra i musulmani c'è una concreta differenza fra Stato laico e islamico. In un articolo su "Foreign Affairs", una rivista tutt'altro che conservatrice e islamofobica, lo studioso Robert Springborg avanza una possibilità. «A giudicare dalle idee di governo che propone, Sisi potrebbe vedere se stesso non tanto come custode del futuro democratico dell'Egitto, quanto come una versione egiziana di Muhammed Zia ul-Haq, il generale pakistano che prese il potere nel 1977, islamizzando lo Stato e la società».

Dunque non un modello algerino e nemmeno turco ma pakistano. La tesi di Springborg non si fonda tanto sulla nota religiosità di Sisi: è un devoto musulmano, quando parla cita regolarmente il Corano, sua moglie e una delle due figlie portano il velo.

L'altra non indossa l'hijab che copre la testa, ma il niqab ultra-ortodosso che nasconde anche il volto. Né conta il periodo che Sisi ha trascorso in Arabia Saudita come addetto militare egiziano. Springborg si riferisce soprattutto a "Democrazia in Medio Oriente", la tesi che Sisi scrisse nel 2006, alla fine del suo corso alla scuola di guerra dell'esercito americano in Virginia. Da quando Anwar Sadat abbandonò l'Urss, cambiando il sistema delle alleanze egiziane, gli ufficiali più promettenti vanno a studiare negli Usa.

«Per avere successo in Medio Oriente», scriveva Sisi, la democrazia deve mostrare «rispetto per la natura religiosa della cultura». «La democrazia non può essere capita senza una comprensione del concetto del Califfato», aggiungeva, riferendosi all'età iniziale nella quale l'Islam politico fu governato dal Profeta e dai suoi immediati successori. Qualsiasi governo arabo, concludeva, deve includere gli islamisti, «anche i più radicali».

Un testo del 2006 che tra l'altro sarebbe stato accuratamente letto dagli istruttori americani, non dimostra che Abdel Fattah al-Sisi pensasse da anni alla conquista del potere in Egitto, che il golpe del mese scorso fosse orchestrato per questo né che la sua ambizione sia d'imporre un regime islamico-militarista. Ma per un militare, patriota e devoto musulmano, il modo maldestro con il quale Morsi stava facendo uso del governo e dell'Islam, deve essere stata una tentazione irresistibile.

2 - NON VOGLIAMO IL BAGNO DI SANGUE» I MILITARI EGIZIANI RINVIANO IL BLITZ
Cecilia Zecchinelli per il "Corriere della Sera"

Ancora un volta l'Egitto ha sorpreso, smentendo le aspettative diffuse domenica che ieri sarebbe stato il «D-Day» per i generali e il governo ad interim da loro insediato dopo la deposizione del raìs islamico Mohammad Morsi, il 3 luglio. L'attesa «pulizia definitiva» dei due giganteschi sit-in organizzati nella capitale dai Fratelli Musulmani non è avvenuta.

Da oltre un mese nella piazza di Al Nahda a Giza e ancor più alla moschea di Rabaa Al Adawiya a Nasr City, decine di migliaia di sostenitori di Morsi sono accampati per protestare contro il golpe militar-popolare, per chiedere il ritorno della legalità e dell'ex presidente detenuto in isolamento da sei settimane in un «posto sicuro».

«C'è un limite alla nostra pazienza, nessun governo democratico potrebbe accettare assembramenti che minacciano la sicurezza» aveva ribadito domenica il ministro degli Esteri Nabil Fahmy. Fonti della polizia avevano aggiunto: passata Eid Al Fitr, la festa che chiude il Ramadan, finita appunto domenica, agiremo. E ai manifestanti: andatevene finché siete in tempo.

Invece, ai sit-in, la gente è perfino aumentata. Protetta da cordoni di uomini con bastoni e pietre, da barricate di sacchi di sabbia, in attesa dell'arrivo di poliziotti e soldati, dei blindati e degli elicotteri Apache. In attesa, insieme al mondo, di un nuovo, inevitabile bagno di sangue: dopo i quasi 300 morti da inizio luglio - quasi tutti Fratelli uccisi dalle forze dell'ordine - vista la determinazione dei manifestanti a non cedere e il noto odio verso di loro della polizia, la possibilità di uno sgombero pacifico era ritenuta da tutti vicina allo zero.

E' stato certo per questo che ieri il generale Abdel Fattah Al Sisi, capo del Consiglio militare e di fatto reggente del Paese, ha preferito aspettare. La mediazione tentata per settimane dalla diplomazia internazionale - Europa, Usa, Golfo - a fine luglio era stata dichiarata finita e fallita. Ma se ufficialmente la comunità internazionale è ora in disparte - le accuse di «interferenza straniera» erano e restano potenti in Egitto - i rapporti con i «grandi del mondo» non sono certo secondari per il Cairo.

Inoltre, il «fronte anti-Morsi» è diviso. Ad appoggiare la sua rimozione, dopo un anno dalla vittoria nelle prime elezioni libere del Paese, erano stati tutti, tranne ovviamente la Fratellanza. Compresi molti liberal e «giovani ribelli». Ma il pugno di ferro di Al Sisi, appoggiato dalle intelligence militari, dalle forze di sicurezza e dai sopravvissuti del vecchio regime, non è condiviso all'unanimità.

Secondo fonti diplomatiche soprattutto Mohammad El Baradei, il premio Nobel nominato vice raìs ad interim, sta insistendo per una soluzione non violenta della crisi. Sui media locali qualcuno ha iniziato ad attaccarlo per questo, ma il rischio che si dimetta è troppo grande per Al Sisi a livello internazionale: El Baradei è la «prova» che il 3 luglio non si è consumato un golpe ma ha vinto la democrazia. Perderlo ora sarebbe un disastro.

La Restaurazione però non si ferma: ieri 20 governatori sono stati insediati al posto di quelli nominati da Morsi, per quest'ultimo il fermo per un'evasione dal carcere nel 2011 è stato prolungato di 15 giorni; i salafiti del partito islamico Al Nour hanno cambiato posizione e dato il proprio sostegno ai militari, dichiarando di non opporsi a far parte dell'assemblea che scriverà la nuova costituzione.

Se la Fratellanza sarebbe ormai pronta a cedere sul ritorno definitivo di Morsi a raìs, un accordo resta difficilissimo. Anche l'offerta di mediazione dell'università Al Azhar di due giorni fa è stata respinta dai Fratelli. Non sorprende: accanto ad Al Sisi, quando depose Morsi in diretta tv, il 3 luglio c'era pure il Grande Imam, il capo di Al Azhar.

 

 

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