“A 14 ANNI AVEVO UN’ACNE FORTISSIMA CHE DIVENTÒ UN COMPLESSO. HO FATTO ANCHE IL CHIERICHETTO, MA POI DIVENTAI SENZA DIO” – MARCO CAPPATO RACCONTA IL SUO RAPPORTO CON MARCO PANNELLA IN UNO SPETTACOLO TEATRALE: “NON ERA SEMPLICE VIVERE INSIEME A LUI. MI IRRITAVA E MI DIVERTIVA ALLO STESSO TEMPO” – IL “PUTIFERIO” DOPO CHE NAPOLITANO RISPOSE ALL’APPELLO DI WELBY SUL FINE VITA. RICORDO LA SUA FRASE CHIAVE: “L’UNICO ATTEGGIAMENTO INGIUSTIFICABILE SAREBBE IL SILENZIO DEL PARLAMENTO”. SONO PASSATI 18 ANNI E SIAMO ANCORA LI'..."
Giusi Fasano per corriere.it - Estratti
Ha 53 anni. È cresciuto a pane e diritti. Segni particolari: disobbedienza civile e non violenza. Professione: la politica, fatta al contrario e lontano dai luoghi politici. Lui parte dal basso, cioè dal corpo delle persone e, come fanno i salmoni, risale il fiume dei partiti nuotando controcorrente in nome di questo o quel diritto fondamentale da raggiungere.
Che sia per abolire i divieti della legge 40, per l’antiproibizionismo o per i diritti dei gay, per la libertà di cura e di ricerca scientifica o per il suicidio assistito... il sistema è ormai rodato: lui fa lotta politica con le azioni e stando fuori (ormai da anni) dalle istituzioni.
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L’ultimo pianto?
«Per amore, giustappunto. È stato per lei, avevamo avuto una discussione ma poi si è risolto tutto. E invece non ho pianto ma ho provato un’emozione fortissima e ho avuto il groppo in gola in alcuni passaggi del mio recente spettacolo teatrale, a Milano».
«Da Marco a Marco» è lo spettacolo che ripercorre la sua vita politica e il suo impegno, a partire dalla conoscenza di Marco Pannella. Perché una sola data?
«Vedremo se mettere altre date in calendario. Io quello spettacolo l’ho imparato a memoria, tre settimane a ripeterlo con una emotività moderata, ma poi sul palco... Mi sono commosso profondamente, soprattutto quando parlavo del giorno in cui mi hanno assolto nel processo per il caso di Dj Fabo. Quello stesso giorno morì mia madre e non feci in tempo a dirle dell’assoluzione».
Che famiglia ha avuto?
«Una famiglia che mi ha fatto respirare la sensibilità per i diritti. Papà era segretario del partito Repubblicano a Monza, mamma era iscritta al partito Radicale. Avevo uno zio socialista... Io ero più sul filone anarchico. Non le dico da ragazzo i dibattiti interminabili a tavola a Natale, a Pasqua...».
Com’era il Marco Cappato ragazzo?
«Se dovessi definirmi con una parola direi timido. Da ragazzino avevo un’acne fortissima che diventò un complesso. Adesso ci rido, ma a 14 anni non è divertente. Ho fatto anche il chierichetto, ma ho resistito poco; per me la fede era occuparsi di chi era in miseria. La povertà mi sembrava una condizione insopportabile... Nell’arco di pochi mesi ero un senza Dio, e verso i 15-16 anni i miei pensieri erano tutti per l’anarchia; non come cancellazione del potere, che è un’utopia ed è perfino sbagliata, ma come sistema che prevede un potere al minimo indispensabile. Solo quello strettamente necessario».
Ogni volta che parla di Marco Pannella lei descrive luci ma anche ombre.
«È vero. Quando andavo a Roma stavo da lui e non era semplice vivere con uno come lui. Mi irritava e mi divertiva allo stesso tempo. Da lui ho imparato molto, umanamente e politicamente, ma negli ultimi anni eravamo distanti, avevamo perso sintonia. Quando è morto ero a un banchetto a raccogliere firme. Ho pianto molto».
La madre di tutte le sue battaglie è quella sul fine vita. Perché?
«La causa scatenante fu Piergiorgio Welby. Avevo 35 anni quando, a Ferragosto del 2006, mi chiese di andare da lui. Stava malissimo, non ce la faceva più. Era già un attivista noto dell’Associazione Coscioni e io ero parlamentare europeo. Mi disse: voglio morire, tu devi andare in Belgio e procurarti il farmaco per l’eutanasia, fa come caz... vuoi ma procuratelo. Arrivai a due medici belgi che vennero a verificare che esistessero le condizioni previste dal Belgio».
Ma eravamo in Italia!
«Eh, appunto... Facemmo un accordo: l’idea era quella di andare avanti con la procedura belga in Italia. Avrebbero praticato l’eutanasia e una volta tornati in Belgio avremmo dato la notizia. Poi si sarebbe aperto lo scontro con l’Italia: procedimento penale, estradizione...».
E invece?
«Invece parlai con Piergiorgio. Gli dissi: puoi avere quello che hai chiesto ma valuta anche se possiamo farne una battaglia pubblica per l’Italia. Lui ci pensò e decise di farlo con un video-appello per il presidente della Repubblica, che all’epoca era Napolitano. E lì successe il putiferio...».
Per le parole dell’appello?
«Ma va... L’appello non se lo filò nessuno. Per annunciarlo convocammo una conferenza stampa alla Camera dei deputati e non si presentò nessun giornalista. Forse ce n’era uno di agenzia».
E il putiferio?
«Scoppiò perché Napolitano rispose a Welby. Ricordo la sua frase chiave: “L’unico atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio del Parlamento”. Fu un’esplosione. Ripresero la notizia perfino la Cnn e Al Jazeera. I giuristi attivarono un dibattito che diventò imponente. Tutti a parlare del suo diritto, del suo corpo, della somministrazione del farmaco, ma nessuno disse: lo faccio io. Finché non arrivò la mail del dottor Mario Riccio».
E lo fece lui.
«Quel giorno, il 20 dicembre 2006, a casa di Welby c’era lui ma c’erano anche i due medici belgi. Se Riccio non fosse riuscito con la sedazione l’accordo era che lui sarebbe tornato a casa e, appena passato il telepass che provava la sua lontananza da Welby, i due medici avrebbero fatto l’eutanasia e poi avremmo dato la notizia dopo la loro partenza, all’atterraggio in Belgio. Per fortuna di tutti noi bastò la sedazione di Riccio...».
L’appello di Napolitano al Parlamento è rimasto inascoltato.
«Sono passati 18 anni e siamo ancora lì. Da allora in poi noi dell’Associazione Coscioni su questo tema siamo diventati il punto di riferimento».
Oggi grazie a voi il suicidio assistito è possibile anche in Italia, ma per non affrontare tempi lunghi e intoppi giudiziari la via più breve resta la Svizzera. Lei quanti malati ha accompagnato in Svizzera a morire?
«Tre. Dj Fabo, la signora Elena e Piera Franchini che però all’ultimo momento ebbe paura di bere il farmaco, temeva che le andasse di traverso e chiese l’endovena. Ma era possibile solo l’autosomministrazione, quindi tornammo indietro».
Non osiamo immaginare quel viaggio di ritorno...
«Non fu facile, lei era disperata. Tornò poi in Svizzera con un’altra persona. Io ne ho accompagnati tre ma mi sono autodenunciato dieci volte come responsabile legale dell’organizzazione Soccorso Civile, che fornisce aiuto diretto a queste persone. Al momento per l’aiuto ai malati in Svizzera siamo indagati in 13 e sono aperti 7 procedimenti penali. Ognuno di noi rischia 12 anni di carcere».
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VIDEO DI MARCO CAPPATO DOPO L ISCHEMIA
Ci descriva un momento intenso in tutto questo darsi da fare per gli altri.
«Ripenso a Welby. Mi ha salutato dicendomi grazie tre volte. Porto con me la gratitudine profonda di chi ho aiutato. Quei “grazie” sono per sempre».
L’ultima domanda è sul sessismo. Cosa fa se sente un amico che dice parole sessiste? Interviene?
«Il rispetto, anche a parole, è importante. Ma le dirò che non mi piace la polizia morale sui discorsi e credo anche che sia controproducente. Forse è più efficace l’ironia, la presa in giro. E poi credo che con l’eccesso di rigidità e con l’esagerazione del politically correct rischiamo di mettere nel linguaggio le energie che non abbiamo la forza di mettere nei diritti. Un errore madornale. Concentriamoci sui diritti, il linguaggio e la cultura verranno di conseguenza».
Marco Cappatosimbolo marco cappatomarco cappato referendum e democraziaMARCO CAPPATOmarco cappatoVIDEO DI MARCO CAPPATO DOPO L ISCHEMIA