PER LA PACE TOCCA AFFIDARSI A QUEL “DITTATORE” (DRAGHI DIXIT) DI ERDOGAN – IL PRESIDENTE TURCO È IN PRESSING SUL SUO AMICO ISMAIL HANIYEH, CAPO POLITICO DI HAMAS, PER CONVINCERLO A FIRMARE LA TREGUA. MA DOPO, CHE SI FA? UNO DEI MEDIATORI PARLA DI “DIN-DIN DEAL”, DAL SUONO DEL DENARO: GLI EMIRATI E I SAUDITI SONO PRONTI AD ALLARGARE GLI ACCORDI DI ABRAMO E FAR PIOVERE 40 MILIARDI DI DOLLARI SULLA STRISCIA, E TRASFORMARLA IN UNA DUBAI DEL MEDITERRANEO
1. IL GIOCO «COPERTO» DI NETANYAHU CHE TEME DI PERDERE LA COALIZIONE SE CEDE SULLA FINE DELLA GUERRA
Estratto dell’articolo di Davide Frattini per il “Corriere della Sera”
[…] Benjamin Netanyahu […] sa che resterebbe senza coalizione, se accettasse un piano che prevede pur nella seconda fase la fine della guerra. Itamar Ben-Gvir ha dichiarato che Netanyahu gli ha promesso di non accettare «accordi sconsiderati».
Mentre Bezalel Smotrich, anche lui capo dei coloni e ministro, ha invocato «l’annientamento di Rafah». O la cittadina sul confine dell’Egitto viene ridotta in macerie come il resto della Striscia — è l’avvertimento degli ultranazionalisti messianici — o a finire in macerie è la coalizione. Ben-Gvir è stato tra i primi a reagire anche ieri: «Conquistare Rafah immediatamente ».
recep tayyip erdogan ismail haniyeh 2
Allo stesso tempo i leader jihadisti sanno di aver detto sì a un’ipotesi rifiutata per mesi dal governo israeliano e pure da Yoav Gallant, il ministro della Difesa, che da rivale politico di Netanyahu all’interno della destra parla agli stessi elettori. Subito dopo l’annuncio di Hamas si è fatto fotografare mentre studia le mappe dell’offensiva assieme a Herzi Halevi, il capo di Stato Maggiore.
La mossa dei capi fondamentalisti — «un trucco» come sostengono a Gerusalemme — punta ad allargare la frattura tra Netanyahu e Joe Biden, perché secondo loro a garantire il cessate il fuoco permanente sono stati proprio gli americani. Se Bibi rifiuta questo tipo di intesa — che ripete di non aver mai visto prima e ha sempre dichiarato di considerare inaccettabile — finirà con il proclamare un altro no in faccia al presidente alleato .
ragazzi presi in ostaggio da hamas durante il rave 2
2. IL PRESSING DI ERDOGAN E UN FIUME DI SOLDI COSÌ HANIYEH HA DETTO “SÌ”
Estratto dell’articolo di Francesca Borri per “la Repubblica”
E ora? Israele dirà di sì? In realtà, non importa. Se dirà di no, Ismail Haniyeh ha già deciso: dirà di nuovo di sì. Perché la responsabilità della guerra diventi tutta di Netanyahu.
Ma perché? Cosa è cambiato per Hamas? Ovviamente, che i 132 ostaggi rimasti a Gaza ormai sono in larga parte morti. Più si va avanti, più Hamas perde merce di scambio.
Ma a fare la differenza è stato Erdogan. Che è entrato in gioco appena è entrato in gioco l’Iran. Su Hamas, Erdogan ha molta più influenza del Qatar, perché non è un alleato: è un amico. Un amico fraterno di Haniyeh, e di mezzo Politburo, con cui condivide la matrice dei Fratelli Musulmani. E secondo Erdogan, o la guerra si ferma, o la vittoria di Hamas si tramuterà in sconfitta.
Perché per ora, per gli arabi il 7 ottobre, nonostante tutto, è un successo. Ha restituito centralità alla questione palestinese, ha rivelato la vulnerabilità di Israele, ha infiammato l’opinione pubblica, ha spinto la Corte Internazionale a intervenire: e comunque andrà, si avrà la fine del blocco di Gaza, e un governo unico con la Cisgiordania. Conviene fermarsi: incassare e riorganizzarsi. […]
Ma non c’è solo Erdogan. L’altro personaggio chiave è meno noto, ma essenziale: è il siriano Abdallah al-Dardari. L’inviato Onu per i paesi arabi. Perché il problema è sempre stato il Day After. Cosa fare di Gaza? I palestinesi vogliono primo ministro Nasser al-Qudwa. Il nipote di Arafat. Che è di Fatah, ma dell’ala di Marwan Barghouti: a cui Sinwar, che sa di essere morto, intende dare il testimone.
Lo scoglio è l’88enne Abu Mazen. Refrattario alle dimissioni. E quindi, mentre si cerca di capire cosa offrire al Fatah […] perché si ritiri, Abdallah al-Dardari è al lavoro per creare una specie di amministrazione Onu de facto. La Gaza Rehabilitation Authority. Che si occuperà della ricostruzione attraverso agenzie Onu e Ong, con l’Idf sul terreno, ma il potere, via via, affidato ai palestinesi. In attesa che Abu Mazen esca di scena.
E questo conduce al terzo fattore che ha inciso su Hamas: gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita. Chiamati a pagare il conto stellare della ricostruzione, stimato in quasi 40 miliardi di dollari. Ma non è un peso: è un business. Basta sfogliare i primi rendering, che Hamas sventola orgogliosa: Gaza sembra Dubai. Uno dei mediatori ha ribattezzato l’accordo “il Din-Din Deal”. Dal suono del denaro. E la prospettiva è quell’allargamento degli Accordi di Abramo su cui punta tutto Netanyahu.
Ma lontano dai riflettori, c’è ancora un altro fattore. La Cisgiordania. Ormai, dell’Intifada non restano che lapidi nei cimiteri. Il 3 maggio Alaa Adib, il comandante di Tulkarem, l’ultimo bastione, è stato ucciso. E Tulkarem è stata domata non tanto dall’Idf, quanto dall’Anp. Segno che ha informatori. E cioè, che i palestinesi collaborano. Che i palestinesi sono stanchi. […]
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il video di hamas con gli ostaggi keith siegal e omri miran 3marwan barghouti 1