L'ARMA AL BIVIO - PER IL RUOLO DI COMANDANTE DEI CARABINIERI È UNA CORSA A DUE TRA LUZI E MARUCCIA, LA CONTINUITÀ E LA ROTTURA - BONINI: ''IL PROSSIMO COMANDANTE GENERALE DOVREBBE RIFORMARE PROFONDAMENTE L'ARMA, SOTTRAENDOLA AL CONTAGIO DELLA CULTURA POPULISTA E AL CINISMO DI UN'IDEA DI LEALTÀ CHE SI MISURA SOLO IN AVANZAMENTI DI CARRIERA. UN UFFICIALE CHE PER ESPERIENZA DI COMANDO (NON FREQUENTAZIONE DI GABINETTI MINISTERIALI) CONOSCA L'ARMA E ABBIA IL CORAGGIO DI RICONOSCERE LA FEBBRE CHE LA AFFLIGGE''
Carlo Bonini per “il Venerdì di Repubblica”
Per un corpo che ha 206 anni di storia ed è parte della storia del Paese, è sempre difficile indicare in un singolo passaggio, un momento più decisivo di altri. Ma è con qualche ragione e soprattutto con la forza della cronaca di questi ultimi dieci anni, che hanno visto avvicendarsi come comandanti generali Leonardo Gallitelli (2009-2015), Tullio Del Sette (2015-2018) e Giovanni Nistri (2018-2020), che si può dire che mai, come oggi, alla vigilia della scelta di un nuovo comandante generale, l'Arma dei carabinieri si scopra e si riveli sfinita da un male interno figlio di un appuntamento troppe volte rinviato e mai davvero affrontato nella sua complessità e profondità.
Nel tempo, Cucchi, Piacenza, le violenze sessuali di Firenze, gli abusi sugli extracomunitari nelle caserme della Lunigiana - solo per citare alcune delle vicende più recenti che hanno mostrato un volto disturbante e raggelante del corpo - hanno raccontato e raccontano qualcosa di più della devianza di qualche mela marcia.
Hanno documentato un'istituzione percorsa da uno scollamento progressivo tra i quadri ufficiali e le migliaia di uomini e donne in uniforme che, ogni giorno, garantiscono la sicurezza delle nostre strade, delle nostre vite. Hanno svelato una cultura del comando spesso inadeguata agli standard di trasparenza minimi richiesti a un apparato moderno in una democrazia moderna. Speculare, per giunta, a una cultura del ricatto prodotta dal risentimento di chi, nelle stazioni, nei reparti territoriali, da quel comando si sente vessato.
Hanno rivelato come meccanismi di reclutamento e arruolamento ormai palesemente inadeguati a una nuova fase, abbiano eroso progressivamente quello che si usa chiamare spirito di corpo, di appartenenza, degradandolo a spirito di auto-conservazione o di eccezione. Per nessun apparato o corpo chiuso è facile autoriformarsi. E l'Arma non fa eccezione.
Per farlo è necessario che al coraggio e alla competenza degli stati maggiori si accompagni il ruolo decisivo della politica. Abituata, al contrario e da tempo, a considerare le nomine dei vertici degli apparati di sicurezza simili a quelli di una partecipata di Stato.
O, peggio - ed è quanto abbiamo visto nella stagione del governo giallo-verde - a soffiare sul malessere degli apparati declinando sgangherate parole d'ordine che hanno avuto come effetto soltanto quello di liberare nuove tossine. Di eccitare o far balenare culture di separatezza o di impunità.
Sarebbe un buon segnale se la scelta del prossimo comandante generale segnasse l'inizio di una stagione di riforma profonda dell'Arma che la sottraesse al contagio della cultura populista e al cinismo di un'idea di lealtà che si misura solo in avanzamenti di carriera. Dunque, di recupero di ciò che il corpo ha smarrito.
Di finestre aperte in cui cominciare a far circolare aria fresca. Per farlo, serve un ufficiale che, per anzianità, esperienza di comando (piuttosto che frequentazione di gabinetti ministeriali) conosca l'Arma e abbia il coraggio di riconoscere la febbre che la affligge. Di darle dunque un nome e affrontarla perché l'Arma è un bene di tutti. E i carabinieri non sono i moschettieri del Re.