STANGARE CHI INQUINA: SÌ O NO? - POTETE IMMAGINARE DA CHE PARTE STA IL PREMIO NOBEL PER L'ECONOMIA PAUL KRUGMAN: "È GIUSTO TASSARE LE EMISSIONI DI CO2. UNA FORMA DI SANZIONE CONTRO LE NAZIONI CHE NON PRENDONO PROVVEDIMENTI PER LIMITARE LE EMISSIONI RESTA INDISPENSABILE PER FERMARE UNA MINACCIA AMBIENTALE CHE STA METTENDO IN PERICOLO LA NOSTRA ESISTENZA" (MA POI CHI PAGA IL CONTO ECONOMICO, NOI?)
Estratto di un articolo di Paul Krugman per www.repubblica.it
Questa è davvero la settimana delle infrastrutture negli Stati Uniti: i democratici hanno approvato il progetto, per ora ancora sommario, di un grande programma di investimenti pubblici che sostituirà un programma “duro” molto più piccolo e bipartisan. Come ho già notato altrove, si ricomincia finalmente a investire su larga scala.
Ma c’è stato un altro fondamentale sviluppo. A quanto pare questa è anche la settimana delle tasse sul carbonio: la proposta dei democratici, al momento generica e senza specifiche, è di tassare i prodotti d’importazione da quei paesi che non prendono provvedimenti sufficienti a limitare le emissioni di gas serra.
Lo stesso giorno, l’Unione Europea ha esposto in maniera assai più dettagliata i suoi piani per imporre un meccanismo di “adeguamento del carbonio alle frontiere” – che temo tutti finiranno per chiamare tassa sul carbonio, anche se CBAM (carbon border adjustment mechanism) è un ottimo acronimo (in inglese suonerebbe: “visto? Bam!”).
Che opinione dobbiamo farci di queste tasse? So per esperienza che qualche voce si leverà per denunciarle come una nuova forma di protezionismo e/o per definirle illegali secondo il diritto commerciale internazionale. Sono voci che bisognerebbe ignorare.
Prima di tutto, stabiliamo le priorità. È vero, il protezionismo ha dei costi, ma spesso se ne esagera la portata, e in ogni caso sono insignificanti di fronte a un cambiamento climatico fuori controllo. Il Pacifico nordoccidentale cuoce ormai sopra i 38 gradi (!), e vogliamo preoccuparci dell’interpretazione dell’Articolo III dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio?
Una qualche forma di sanzione internazionale contro le nazioni che non prendono provvedimenti per limitare le emissioni è indispensabile se vogliamo fermare davvero una minaccia ambientale che sta mettendo in pericolo la nostra stessa esistenza. I paesi in via di sviluppo, in particolare la Cina ma non solo, sono già responsabili della maggior parte delle emissioni di anidride carbonica; se queste nazioni non partecipano, il grande sforzo congiunto di Stati Uniti ed Europa non servirà a molto.
“Le industrie si trasferiranno in Cina” è un altro argomento preferito di chi si oppone dall’interno alle azioni per il clima, e la risposta a questa obiezione determinerà le politiche normative sul tema.
Alla luce di queste considerazioni, sembra quasi scontato specificare che le tasse sul carbonio non hanno nulla a che vedere con il protezionismo, e sono legali secondo il diritto commerciale internazionale. Tuttavia credo valga la pena sottolinearlo, se non altro perché è un argomento su cui ho riflettuto e lavorato per molti anni.
IL PIANO UE PER DIMEZZARE LE EMISSIONI
Per comprendere gli aspetti legali ed economici delle tasse sul carbonio, può essere d’aiuto considerare l’economia e la legge delle imposte sul valore aggiunto (IVA), una delle principali fonti di introiti in molti paesi (ma non negli Stati Uniti). Il confronto è estremamente utile.
Sulla carta, l’IVA è una tassa pagata dai produttori: se uno stato impone l’IVA al 15%, un'azienda che produce una certa merce deve pagare una tassa pari al 15% delle sue vendite – meno le tasse che può dimostrare già pagate dalle compagnie che vendono le materie prime all’azienda. Il vantaggio di questo sistema è che il settore privato fa gran parte del lavoro “applicativo”, nel senso che ciascuna azienda è incentivata ad assicurarsi che i propri fornitori paghino il dovuto.
Ma alla fine chi paga l’imposta? Di norma tutte le tasse sui produttori finiscono per trasformarsi in prezzi più alti dei prodotti, quindi un’IVA del 15% è, a tutti gli effetti, una tassa nazionale del 15% sulle vendite.
All’IVA si accompagna sempre un “adeguamento alle frontiere”: chi importa deve pagare una tassa sui beni importati, mentre chi esporta ottiene una riduzione pari alla tassa pagata su ciò che esporta. Tutto torna se si pensa all’IVA come a una tassa sulle vendite: nessuno vorrebbe una situazione in cui i clienti di un negozio pagano una tassa solo sui prodotti del proprio stato, mentre quelli cinesi restano esenti. Né avrebbe senso addebitare una tassa sulle vendite ai prodotti del proprio stato venduti in altri paesi.
Questo è un punto ampiamente frainteso. Le imprese statunitensi in particolare credono che gli adeguamenti alle frontiere imposti dagli stati con IVA rappresentino tariffe e sussidi alle esportazioni che danno un vantaggio sleale ai loro concorrenti. Ma si sbagliano dal punto di vista economico. E per l’Organizzazione mondiale del commercio questi adeguamenti legati all’IVA sono legali, perché servono ad attuare una politica interna che, almeno in teoria, non distorce i commerci internazionali. In altre parole, gli adeguamenti alle frontiere non fanno pendere la bilancia da una parte, anzi la riportano in equilibrio.
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