1. SCALFARI FA 90 E DAGOSPIA DEDICA A EU-GENIO UN VIDEO-STORY DI FERNANDO PROIETTI 2. IL SUO PERCORSO POLITICO: "FASCISTA, FASCISTA DI SINISTRA, MONARCHICO, LIBERALE, LIBERALE DI SINISTRA, RADICALE, RADICALE DI SINISTRA, SOCIALISTA, SOCIALISTA DISSIDENTE, REPUBBLICANO..." RISPOSTA DA COPIARE: "SONO SEMPRE STATO IN MINORANZA" 3. BARBARA PALOMBELLI: “IL LATO UMANO. SCALFARI LO HA COLTIVATO CON PASSIONE, ARRIVANDO A NON SCEGLIERE FRA DUE DONNE AMATISSIME, "PER NON FARLE SOFFRIRE", CEDENDO SEMPRE ALL'ISTINTO CHE GLI HA FATTO APPREZZARE/DETESTARE SENZA VIE DI MEZZO OGNI PERSONA, PARTITO. O TI ABBRACCIA, O NON TI SALUTA. E' LA FAZIOSITÀ, L'ORIGINE E IL SEGRETO DEL SUO SUCCESSO. IL MOTIVO PER CUI MOLTI NON LO POSSONO SOFFRIRE” 4. UN INEDITO DI SCALFARI: “I MIEI INCONTRI CON GIULIO ANDREOTTI TRA MISTERI E SCANDALI”

Video di Fernando Proietti per Dagospia

1. I NOVANT'ANNI DI SCALFARI
Barbara Palombelli per "Il Foglio" del 14 marzo 2014

Ora, è diventato una star della tv, dei talk-show. Nel 1987 non era così. Portare Eugenio Scalfari a "Domenica In", per un'intervista che avrebbe avuto un ascolto di 10-12 milioni, in diretta, era un azzardo. Lui arrivò perfetto come sempre, allontanò l'inevitabile truccatrice armata di cipria con un'affermazione netta: "Non sudo mai". Accidenti. Io tremavo, non avevo ancora mai lavorato con lui, tormentavo degli appunti (diversamente da molti colleghi mi sono sempre scritta i testi interamente da sola) un po' ciancicati.

Lui immobile: quasi non credevo che sarebbe arrivato, un monumento del giornalismo sul divanetto bianco ideato da Gianni Boncompagni per far sembrare tutti belli, diceva che bianco e azzurro sono il segreto dei santini da secoli e sono molto donanti. Verissimo. L'intervista scivolò via veloce, la prima domanda ripercorreva le sue identità politiche fino a quel momento: "Fascista, fascista di sinistra, monarchico, liberale, liberale di sinistra, radicale, radicale di sinistra, socialista, socialista dissidente, repubblicano..." Risposta da copiare: "Sono sempre stato in minoranza".

Ci ritrovammo qualche anno dopo, era il 1989, al bar Doney di via Veneto. Stavo per entrare a Repubblica, ci avrei lavorato dieci anni. Subentravo al collega Alberto Stabile che lasciava la redazione politica per l'estero, il mio nome l'aveva suggerito Mino Fuccillo. Serviva al quotidiano qualcuno che "parlasse col nemico", allora Bettino Craxi. Eugenio però non si abbassò a parlare di queste inezie, mi ricordò che nell'immediato Dopoguerra in uno dei suoi primi lavori - funzionario della Bnl - aveva conosciuto mio nonno Luigi, agente di cambio in piazza di Spagna, e me lo descrisse come fosse seduto con noi al bar.

Il lato umano. Scalfari lo ha coltivato con passione, arrivando a non scegliere fra due donne amatissime, "per non farle soffrire", cedendo sempre all'istinto che gli ha fatto apprezzare/detestare senza vie di mezzo ogni persona, partito, perfino ogni gesto quotidiano. O ti abbraccia, o non ti saluta. E' la faziosità, l'origine e il segreto del suo successo. Il motivo per cui molti non lo possono soffrire.

Mi raccontò una volta che, da ragazzo, perfino nella scelta del liquore allora di moda - la Sambuca - lui esercitava il potere della faziosità. Fra le due marche produttrici, Molinari e Pallini, una era di un suo parente. Il gioco consisteva nell' entrare al bar e dire, in gruppo e a voce alta: prendiamo la Sambuca x, l'altra fa schifo, non si può proprio bere".

Curioso di tutto, attratto dal mistero della religione e molto complice con le signore anche nel giornale - quando dirigeva lui tutti i servizi erano guidati da donne, Archinto, Carini, Bonsanti - era specializzato nel trovare spazi vuoti nel conformismo dilagante. La scuola del settimanale - prima il Mondo, poi l'Espresso - lo aveva costretto a montare e costruire polemiche anche senza notizie e alla Repubblica fu questa la ricetta vincente.

La malinconia del figlio unico che teme l'abbandono e la morte dei genitori non lo aveva mai abbandonato. Una sera, in casa dell'amica comune Elisa Olivetti, mi spiegò la sua molto chiacchierata bigamia con la speranza di vivere di più, di non farsi trovare dalla morte. Moltiplicare le vite, una in smoking all'Opera, l'altra in maglione ascoltando jazz gli avrebbe forse dato l'illusione di una esistenza più completa.

Ho imparato moltissimo da lui e dalle sue riunioni del mattino, una vera scuola. Non sono mai stata soggiogata né iscritta al suo mutevole esercito di fedelissimi. Anzi. Parlavo con gli avversari, prima i suoi ex amici socialisti, poi Cossiga e Berlusconi. Avrebbe voluto in squadra anche il direttore di questo giornale. Adorava i contrasti. Certo, non mi sono mai annoiata. Non avrei potuto dire di essere stata una giornalista politica senza avere vissuto qualche anno in piazza Indipendenza. Fra poco, il Fondatore arriverà ai Novanta. Auguri.


2. I MIEI INCONTRI COL DIVO GIULIO TRA MISTERI E SCANDALI
Brano del libro "Racconto autobiografico" di Eugenio Scalfari, pubblicato da "la Repubblica"

Il vero - e mai risolto - mistero della prima Repubblica si chiama Giulio Andreotti. Con quel mistero io ho avuto molto a che fare, tant'è che, nel film Il divo del regista Sorrentino, a un bravissimo attore che mi fa da controfigura è affidato il compito di intervistare il protagonista. L'intervista si trasforma in una requisitoria d'accusa cui il «divo » risponde da par suo.

In realtà quell'intervista non è mai avvenuta; le interviste che feci con lui nel corso degli anni furono quattro o cinque, ma non ebbero mai il tono della requisitoria. Le inchieste su di lui e alcuni nostri articoli, invece, quel tono lo ebbero, ma ci furono anche momenti di rappacificazione tra noi e Andreotti, e perfino di vicinanza politica.

Una cosa è certa: Andreotti era un personaggio inquietante e indecifrabile, l'incrocio accuratamente dosato d'un mandarino cinese e d'un cardinale settecentesco. Ha tessuto per quarant'anni, infaticabilmente, una complicatissima ragnatela servendosi di tutti i materiali disponibili, dai più nobili ai più scadenti e sordidi. È stato lambito da una quantità di scandali senza che mai si venisse a capo di alcuno.

L'elenco è lungo: lo scandalo del Sifar (era ministro della Difesa all'epoca dei dossier di De Lorenzo e di Allavena), lo scandalo Montedison-Rovelli (allora era presidente del Consiglio), lo scandalo Eni-Petromin (di nuovo presidente del Consiglio), quello Caltagirone, l'arresto del direttore generale della Banca d'Italia, Mario Sarcinelli, e l'incriminazione del governatore Paolo Baffi (che furono ricondotti a una sua vendetta), lo scandalo Sindona al quale era legato da una dubbia amicizia, quello del Banco Ambrosiano, quello del comandante della Guardia di Finanza in combutta con i contrabbandieri del petrolio e infine lo scandalo della P2 che in un certo senso tutti li riassume.

Ciascuno di questi casi può assumere l'aspetto geometrico di una piramide tronca di cui non si riesce a vedere il culmine. Ci sono indizi, amicizie, legami, luogotenenti che mantengono contatti e in caso di necessità si assumono in prima persona le responsabilità (vedi il caso Evangelisti che diede le dimissioni da ministro quando si scoprì che aveva ricevuto denari da Caltagirone). Tutti questi elementi ruotano attorno ad Andreotti e lasciano intuire che potrebbe essere stato lui il Grande Protettore, il Padrino, comunque il punto di riferimento, ma niente di più.

Quest'uomo così discusso esercitò una grandissima influenza ma non dette mai ordini. Suggeriva, consigliava, incoraggiava, proteggeva. Aveva una memoria tenace, una zona segreta della mente nella quale annotava gli sgarbi ricevuti e i favori resi, i nemici e gli amici. Quegli occhi leggermente obliqui sembravano due fessure attraverso
le quali entrava tutto ciò che doveva entrare senza che ne uscisse nulla, non un moto d'ira o di gioia, non un sentimento percepibile né di odio né di riconoscenza.

Quelle labbra sottili, quella testa incassata tra le spalle ingobbite, quel colorito giallognolo, quell'immagine fisica di fragilità non disgiunta da una certa eleganza, una vita privata senza ostentazione alcuna, quel tratto al tempo stesso alla mano ma distante da tutti ne fanno un enigma vivente.

Se indossasse un kimono di seta e babbucce ai piedi e aggiungesse ai radi capelli un posticcio codino, Andreotti sarebbe l'immagine d'un alto consigliere della Città Proibita dell'impero celeste. Ma con una sottana violetta e la berretta cardinalizia in capo potrebbe essere un personaggio ritratto dal Tiziano. Oppure, in talare nera e fascia di seta alla vita, un potente generale dei gesuiti del diciottesimo secolo.

Nel partito ebbe sempre scarso seguito, la sua corrente numericamente non era forte, i grandi del capitale, sia pubblico che privato, non sono mai stati suoi alleati: Mattei, Petrilli, Cefis, Schimberni, Cuccia, nessuno di questi uomini ha mai avuto con lui rapporti organici, mentre alcuni di loro ne hanno avuti con altri leader politici magari anche meno dotati.

Non so se sia stata un'inclinazione o una necessità, ma Andreotti si è sempre posto come il leader di forze eterogenee e minoritarie con l'obiettivo di riunirle intorno a sé trasformandole in una maggioranza sia pure provvisoria. Qualche esempio.

È stato il protettore di Rovelli contro Cefis, di Sindona contro Cuccia, del Banco di Roma contro la Commerciale e il Credito Italiano. Di Roberto Calvi contro tutti. Ha avuto in mano per molti anni l'importantissima Procura della Repubblica di Roma, attraverso Claudio Vitalone. Gelli ha lasciato più volte intendere di considerarlo il suo referente principale. Il generale Maletti, capo dei servizi del controspionaggio, gli fu devotissimo. Orazio Bagnasco non mosse passo nella finanza senza consultarlo.

In Vaticano, questo cardinale mancato non è mai stato nelle grazie dei Segretari di Stato in carica, a conferma di quell'inclinazione del carattere che lo spingeva a lavorare non di fronte ma di sponda; ma sempre mantenne contatti solidi e profondi con i capi di alcune potenti congregazioni, con lo Ior, col Vicariato di Roma e con alcuni dei Sostituti della Segreteria.

Il suo vero avversario a pari livello di intelligenza politica è stato Moro, non Fanfani. Moro privilegiava la strategia, Andreotti la tattica. [...] In un'ideale partita a quel classico gioco che è lo scopone, Moro può raffigurarsi come il giocatore che dà le carte e gioca per «apparigliare», mentre Andreotti è il giocatore «sotto mano» che gioca per «sparigliare».

Nella corsa al Quirinale sono caduti tutti e due. A eliminare il primo hanno provveduto le raffiche di mitra dei brigatisti, il secondo è malamente scivolato sul caso Gelli-P2.
Poi, nel 1992, cadde la prima Repubblica e ogni possibilità che il «divo» avesse ancora una prospettiva politica. Negli anni del berlusconismo è stato il testimone di un'epoca tramontata per sempre.

 

 

 

Eugenio Scalfari Intervento di Eugenio Scalfari LAMA, ANDREOTTI, SCALFARIscalfari eugenio Eugenio Scalfari Mieli e Dalema Eugenio Scalfari Moroello Diaz Veltroni ed Eugenio Scalfari SANREMO IL PRIMO A SINISTRA E EUGENIO SCALFARI IL PENULTIMO A DESTRA ITALO CALVINO GIORGIO BOCCA ED EUGENIO SCALFARI Laura Boldrini e Eugenio Scalfari EUGENIO SCALFARI NEL 1980EUGENIO SCALFARI CARLO DE BENEDETTI EUGENIO SCALFARI CON MOGLIE E FIGLIA Eugenio Scalfari Giovanni Valentini Eugenio Scalfari un maestro di giornalismo EUGENIO SCALFARI DA FABIO FAZIO

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