LA "VIA DELLA SETA" È UNA BOMBA A OROLOGERIA PER LA MELONI - ENTRO FINE ANNO IL GOVERNO DEVE COMUNICARE SE VUOLE USCIRE DALL'INTESA CON LA CINA E NON HA ALTRA SCELTA CHE DISDIRE L’ACCORDO A MENO DI RISCHIARE UN FRONTALE CON GLI USA, GIA’ INCAZZATISSIMI CON ROMA PER IL CASO ARTEM USS - LA MISSIONE DEL NUOVO AMBASCIATORE IN ITALIA JACK MARKELL, UOMO DI FIDUCIA DI BIDEN, E’ CONVINCERE LA "DUCETTA" A NON RINNOVARE LA PARTECIPAZIONE ALLA VIA DELLA SETA - MA IL SILENZIO DI PECHINO È MINACCIOSO…
Stefano Stefanini per la Stampa
Rinnovare o non rinnovare? L'amletico dubbio sull'accordo Italia-Cina con cui Roma aderì alla Via della Seta di Xi Jinping arriva improvvisamente sul tavolo della premier. Prematuramente. Giorgia Meloni lo conosceva ma sperava forse di aver tempo fino alla fine dell'anno. Invece, via autorevoli media internazionali (Cnbc, Politico), Washington fa capire che l'Italia deve decidere da che parte stare.
Il pubblico silenzio, per ora, di Pechino è eloquente quanto minaccioso. Chi conosce la diplomazia cinese sa quanto sia muscolare non appena le si torce un capello - chiedere ai grandi, Canada, Australia, come ai piccoli -Lituania, come ai pacifici - Parlamento europeo. Dopo una navigazione felice in Atlantico grazie al faro ucraino, e nel mezzo di un trekking faticoso in Europa, il governo Meloni si trova a passare fra Scilla americana e Cariddi cinese.
Il tempo degli equilibrismi internazionali è finito. E non ci sono reti di sicurezza. In questo caso, chi cade si fa male o sul fianco atlantico o nella pancia cinese. Giorgia Meloni ne è ben cosciente. Ma, mentre la brutalità russa gli ha dato una mano a prendere posizione senza se e senza ma sulla guerra ucraina, che ha lasciato all'asciutto di argomenti persino le simpatie dei suoi alleati di governo vicini a Mosca, la partita con Pechino si gioca in chiaroscuro, non a tinte nette. Ma è solo apparenza. La "Belt and Road Initiative" (Bri) non è infatti un esercizio economico-commerciale, è geopolitico. Quindi associarvisi diventa indirettamente una scelta di campo poco compatibile con la collocazione euro-occidentale dell'Italia.
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La Presidente del Consiglio si trova dunque a dover sciogliere un nodo di cui non è assolutamente responsabile. La scadenza della partecipazione italiana alla Via della Seta è un'eredità lasciatagli dal primo governo Conte, per di più con l'infelice formula del rinnovo automatico salvo disdetta tre mesi prima: i cinque anni scadono a marzo dell'anno prossimo, ma per uscirne l'Italia deve dichiararlo entro dicembre. Attirandosi inevitabili ritorsioni cinesi. Giorgia Meloni ha buoni collaboratori. Era stata messa in guardia prima di incontrare Xi Jinping a Bali in novembre, che però non gliene parlò. Ma fu pura cortesia del primo incontro.
Per i cinesi la partecipazione dell'Italia - unico Paese G7 che ha aderito alla Bri - è un fiore all'occhiello essenziale. Com'è essenziale all'incontrario per l'amministrazione Biden, che sta cercando di forgiare proprio via G7 un nuovo "Washington consensus" sulla Cina, che l'Italia se ne tiri fuori. Anche di questa reazione americana in fieri, la premier è stata avvisata: chi conosce Washington sa come si muova la diplomazia americana in queste situazioni: come uno schiacciasassi. E sarebbe ancora più efficace se quest'amministrazione Usa si degnasse di nominare un Ambasciatore a Roma.
giorgia meloni joe biden g20 4
Che fare? Non ci sono vie d'uscita facili. A meno di non voler entrare in collisione con gli Usa, ed isolarsi internazionalmente, il governo italiano non ha altra scelta che disdire l'accordo con la Cina sulla Via della Seta. Già molto raffreddato dal governo Draghi e, ad oggi, privo di ritorni economici. Le esportazioni italiane sono aumentate ma lo sono anche quelle tedesche o di altri esportatori europei che si tengono alla larga dalla Bri. Ma come minimizzare i danni, per quanto possibile? Dosando tempi e modi. Cominciamo dai tempi. Se un dente duole meglio toglierselo subito. Per la disdetta c'è tempo fino a fine anno ma è meglio non aspettare l'ultimo momento. Sia per non ingenerare aspettative cinesi sia per non trovarsi in un interminabile fuoco incrociato di pressioni da Washington e da Pechino, nessuno dei due peso leggero.
Far presto quindi - ma non troppo presto.
Se l'adesione del 2019 fu un'improvvida iniziativa nazionale isolata, l'uscita del 2023 può essere fatta rientrare nell'atteggiamento strategico verso la Cina coordinato con i partner G7 e Ue.
Non c'è molto da attendere: per il G7 il vertice di Hiroshima del 19-21 maggio che produrrà un nutrito passaggio sulla Cina nel comunicato finale; per l'Ue il Consiglio europeo di giugno che dovrebbe avere in agenda un documento sullo stesso tema. Evidentemente né l'uno né l'altro faranno felici Xi Jinping, ma offrono all'Italia una copertura collettiva, cui potrebbe aggiungersi il più volte rinviato libro bianco tedesco sulla Cina - anche Berlino, con una coalizione di governo divisa sull'argomento, attende gli schermi G7 e Ue per pronunciarsi. Infine, al governo - questo vale soprattutto per i ministri più loquaci - conviene astenersi da dichiarazioni pubbliche di cui potrebbe poi pentirsi o che richiedano correzioni del tiro. Serve invece pensare a quali eventuali contropartite offrire a Pechino per attutire il colpo e limitare le ritorsioni (che ci saranno).
Sul piano bilaterale, ci sarà pur qualcosa che Pechino ci chiede. Quando infine saremo pronti, Pechino va direttamente informata della decisione di disdetta prima che sia resa pubblica. Viceversa con Washington, ovviamente, in caso di rinnovo. Nel qual caso però Giorgia Meloni dovrà dimenticare la luna di miele atlantica. Governare è scegliere.