Estratto dell’articolo di Terry Marocco per “Panorama” pubblicato da “la Verità”
Poteva diventare la signora Dalí, ma in fondo Amanda Lear, non lo ha mai veramente voluto. Nel suo libro La mia vita con Dalí, scritto 35 anni fa e appena ripubblicato da Il Saggiatore, racconta la complessità di un rapporto durato 17 anni, tra le luci sfavillanti del jet set internazionale e le ombre della decadenza crepuscolare del genio del surrealismo.
«Oggi è cresciuto l’interesse intorno a Dalí», racconta dalla sua casa parigina. «Ho appena firmato con una produzione americana per un film basato sulla nostra storia d’amore. Ci vorranno anni, si parla di Margot Robbie per la mia parte e Al Pacino o forse Adrien Brody per quella di Dalí. Sono quasi sicura che ne faranno un pagliaccio, eppure recitava quella parte solo davanti al suo pubblico. In privato era colto, educato».
Davvero le ha dato del «lei» per tutta la vita?
«A lui piacevano l’aristocrazia, le contesse, le principesse. Parlava come vivesse in un tempo antico. Ci siamo sempre dati del lei, anche se eravamo intimi. Era religiosissimo, tradizionale: non eravamo sposati e non gli piaceva l’idea che si pensasse fossi la sua amante. Sapeva che non avevo soldi, ma mi diceva: “Piccola Amanda, vorrei aiutarla, ma non posso. Ho una moglie e sono cattolico”. Era il trionfo dell’ipocrisia. Un tipico macho spagnolo».
Eppure, le chiese più volte di sposarlo, perché non volle accontentarlo?
«Intanto era già il marito di Gala. Lei mi aveva fatto giurare che se fosse morta, avrei preso il suo posto. Non potevo, avevo 25 anni e la mia musica. E allora, perfidamente, mi diceva che facevo schifo quando cantavo. Ci teneva che gli stessi accanto, ma io non volevo sposare un vecchio (c’era una differenza d’età di 35 anni, ndr)».
Ci ha mai ripensato?
«Non mi piaceva diventare la signora Dalí. Però non volevo abbandonarlo, aveva fatto tanto per me. Come un padre, un fratello, un professore d’arte, un maestro di vita. E all’improvviso lo vedevo vecchio, debole, non poteva più dipingere per i tremori del Parkinson. Ma avevo davanti una carriera, avrei dovuto fargli da badante e infermiera? Non me la sono sentita, era troppo per me. Forse sono stata egoista».
[…] Ha dedicato il libro alla moglie, che rapporto ha avuto con Gala?
«L’ho ammirata. Io sono gelosissima e non avrei mai immaginato una signora che mi diceva: “Ti accolgo in casa mia, prendi pure il mio posto”. Per me era impensabile. Ma lei era una donna straordinaria, segreta. Mi faceva i tarocchi. Era russa e ogni giorno scriveva un misterioso diario in cirillico.Per Dalí era tutto».
Da come ne scrive pare che avesse un carattere terribile.
«È stato difficile conquistarla. Era sempre arrabbiata, detestava la corte di approfittatori e parassiti che aveva intorno. Lo proteggeva: è stata infermiera e manager. Tutto, tranne che moglie».
Cosa significa?
«Non hanno mai fatto l’amore. Lui era impotente. Mi disse che non l’aveva mai penetrata. La sola idea del sesso femminile gli faceva orrore, paura. Mi fa ridere quando sento di un figlio nascosto. Mi raccontava che da giovane a Barcellona andava al bordello con Picasso. Era così spaventato che faceva sedere la ragazza a due metri di distanza e al massimo le chiedeva di aprire le gambe e lasciarlo guardare. Riversava la libido solo nella pittura».
[…] Tra di voi chi soffriva e chi faceva soffrire?
«Dalí era innamorato pazzo di me, pur sapendo che non mi poteva soddisfare. Io uscivo con bei ragazzi giovani e lui godeva della sua gelosia. Voleva che gli raccontassi tutto. Era una cosa masochista. Andavo a ballare tutte le sere, mi drogavo abbastanza, non ero certo una brava ragazza. Lui mi accompagnava fino alla porta di casa dei miei amanti e si crogiolava pensando a quello che avrei fatto».
Come veniva visto il vostro ménage à trois?
«A Parigi si facevano le supposizioni più strane. Immaginavano ogni perversione, per esempio che Gala fosse lesbica. Invece era tutto molto semplice. Lei amava viaggiare e sapeva che il marito non poteva stare da solo. Mi aiutava anche economicamente, mentre lui era avarissimo».
[…]
Che coppia era?
«Molto egoisti. Si sentivano esseri divini e trattavano tutti male. Lei non aveva mai voluto vedere sua figlia. Vivevano solo per loro. Sono stata l’unica a essere accettata. Anche con gli animali erano senza cuore: avevano due ocelotti, ma li usavano solo per le foto. Si mangiarono anche il coniglietto di casa».
Dalí diceva che se ami qualcuno lo vuoi mangiare.
«Era la sua teoria sul cannibalismo, ne era affascinato. Ingerire è un atto d’amore».
Ha divorato anche lei?
«Sì, ho dovuto scrivere questo libro per non andare in psicoanalisi. Mi ossessionava, non riuscivo a sbarazzarmene, lo sentivo dietro le spalle anche mentre dipingevo. Era onnipresente anche quando non c’era più. La scrittura è stata una catarsi, dopo ho potuto fare la mia vita. Oggi mi dispiace quando continuano a chiamarmi la musa di Dalí. Ho fatto anche altre cose. Però per tutti resto sempre la musa. Che noia».
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