Marco Giusti per Dagospia
Tolo Tolo di Checco Zalone
CONFERENZA STAMPA DI TOLO TOLO - CHECCO ZALONE
Finché siamo in Puglia, anzi nelle Murge, in quel di Spinazzola, neanche 7000 abitanti, è tutto facile. Lo sappiamo. Lì Checco è re. Si permette anche il lusso di riesumare Nicola Di Bari come zio nostalgico del Duce, da unire a una mamma, due ex-mogli, un avvocato e una valanga di parenti vari. C’è pure un personaggetto minore, tal Gramegna interpretato da Gianni D’Addario che da galoppino locale alla Di Maio diventerà, in breve, assessore, sindaco, prefetto, ministro degli esteri, presidente del consiglio alla Conte. Una delle invenzioni migliori del film.
E’ l’Italia che conosciamo e che nessuno oggi sa descrivere bene come Checco. Le cose si complicano quando l’azione si sposta in Africa, in Kenya, dove è finito il protagonista in fuga dai creditori ed ex-mogli e il film parte davvero a ritmo della magistrale “Vagabondo” di Nicola Di Bari. Anche perché questo Tolo Tolo, quinto film di Checco Zalone, il primo da regista, che oltre a interpretarlo lo ha scritto (soggetto e sceneggiatura) assieme a Paolo Virzì, è particolarmente ambizioso.
Perché affronta temi importanti e vere tragedie umane come il viaggio della speranza dei migranti, i barconi, i porti chiusi con le armi della commedia all’italiana, pensiamo tutti ovviamente a ‘’Riusciranno i nostri eroi…’’ di Ettore Scola con Alberto Sordi e Bernard Blier, e magari anche del cinema comico, penso a ‘’Due bianchi nell’Africa Nera’’ di Bruno Corbucci con Franco e Ciccio, sgangherata e immediata parodia del film di Scola.
E non sempre commedia e cinema comico bastano per trattare temi così grandi. Si rischia, inoltre, di non essere capiti, di provocare ambiguità, polveroni, inutili dibattitti in tv. Si è già visto lo stato delle cose rispetto al video “Immigrato” lanciato come teaser del film che ha già provocato discussioni infinite anche nelle migliori famiglie.
Esattamente come nel film di Scola, cinepanettone del lontano 1968, quel che interessa di più a Zalone e presumo anche a Virzì, vecchio age-scarpelliano nonché scola-monicelliano, è la parte più nostra, cioè il viaggio in Africa come metafora del viaggio dentro alla testa confusa dell’italiano medio. Con tanto di recupero del suo mai sopito fascismo, che, come spiega bene Checco, “è come la candida, con lo stress e col caldo esce fuori…”.
Così, ogni tanto, durante il viaggio di ritorno dal Kenya verso l’Italia del piccolo imprenditore pugliese dato per disperso in Africa anche dal tg di Enrico Mentana e da “Non è l’Arena” di Massimo Giletti, a Zalone torna su la malattia. “Hai avuto un attacco di fascismo”, gli spiega un vecchio stregone di fronte a un Checco Zalone che si sente dentro la voce del Duce ai tempi dell’Impero.
“Sai come si cura?”, gli chiede lo stregone. “Con Gentalyn?” risponde Checco. “No, con l’amore”. Ecco. Già trattare il fascismo come una malattia, anzi come la Candida, è una trovata divertente che ci fa capire da che parte stanno i due sceneggiatori. Anche la perdita di identità di Checco, che si sente “uno di loro”, uno dei tanti migranti in mezzo al deserto, che si innamora della bella Idjaba di Manda Touré e sogna un’Italia diversa, con la nazionale tutta nera mentre ascoltiamo Mino Reitano cantare “Italia Italia… Di terra bella e uguale non ce n’è!” è una trovata coraggiosa e notevole.
E le scelte delle canzoni italiane d’epoca, devo dire, è quasi sempre magistrale, da “La lontananza” di Domenico Modugno a “L’arca di Noé” di Sergio Endrigo, che sentiamo quando parte il barcone verso l’Italia (“Partirà… la nave partirà…”), al “Viva l’Italia” di Francesco De Gregorio, forse un po’ ovvio. Insomma. Quando gioca sulle manie e sui gusti dell’italiano di provincia, quando il viaggio è dentro di sé, Checco è imbattile, come lo erano Alberto Sordi e Nino Manfredi ai tempi della commedia all’italiana.
Magari le cose cambiano e qualcosa non funziona sempre quando ci si sposta dalla commedia a temi e situazioni più drammatiche. Anche perché non sono più i tempi di Scola e dell’Africa lontana del ’68, ma di qualcosa che abbiamo di fronte agli occhi tutti i giorni in tv e sui giornali, anche se non lo vogliamo vedere.
La scelta di Zalone è sempre quella di rendere il tutto meno drammatico e realistico di come dovrebbe essere. Quindi non ci sono né morti in mare né sangue né situazioni poco spiegabili ai bambini in sala. La bella Idjaba si prostituisce o no? Qualcuno muore con l’arrivo della grande onda? E’ tutto confuso. Credo per scelta. E ci sembra strano con uno sceneggiatore così accorto come Paolo Virzì, che doveva essere anche il primo regista del film.
Tutto il personaggio di Omar, Souleyman Silla, l’amico cameriere cinéphile pazzo del neorealismo italiano che vuole diventare regista, ha rivelato Checco in conferenza stampa, per esempio, è modellato proprio su un amico di Virzì. Mentre il personaggio del bel giornalista francese Alexandre, interpretato dalla star di ‘’Cyrano e io’’ Alexis Michalik, con tanto di assurda sponsorizzazione-marchetta a “Vanity Fair” (in nessun film di Checco avevamo mai visto uno sponsor, ahi,…), sembra ripreso paro-paro dal Manuel Zarzo di ‘’Riusciranno i nostri eroi…’’.
Magari il bambino Dudù, con annessa battuta sul cane di Berlusconi, fa ridere ma è pesantina, è più vicino al bambino nero Boudu di ‘’’Piedone l’africano’’ con Bud Spencer. Elementi che nella costruzione drammatica del viaggio però non sempre funzionano benissimo. Anche perché non c’è un finale così forte come era quello esplosivo con Nino Manfredi del film di Scola. Anzi, ci sono forse un po’ troppi finali, a dire il vero.
GIORGIA MELONI E L'IMMIGRATO DI CHECCO ZALONE
L’impressione è che, dovendo fare un grande film popolare targato Medusa, con lancio di 1100 copie il 1 gennaio, un film che deve arrivare almeno a 50 milioni di euro di incasso, Checco, che pure ha scelto temi così nobili e civili, si sia poi a tratti limitato nel realismo e nello schierarsi decisamente da una parte, antifascista sì antisalviniano chissà, anche se appare chiarissimo, almeno a me, cosa sta facendo e perché ha girato questo film, e gliene siamo sinceramente grati.
In un periodo come questo, dopo i porti chiusi di Salvini, il razzismo quotidiano negli stadi, è già opera di grande coraggio vedere un film di così vasta diffusione e con un protagonista così popolare trattare temi civili dandoci un messaggio di speranza. Certo, con un regista più accorto, e molto cattolico, come Gennaro Nunziante, qualche grossolanità magari sarebbe stata evitata, penso a la canzoncina “la gnocca salva l’Africa”, o al cartone animato finale che mi ha lasciato un po’ perplesso.
Ma credo che solo la visione del pubblico e il tempo ci possano dare uno sguardo non viziato su un film così coraggioso sul nostro presente. Perché sono tempi dove è facile sbagliare e non capire quello che gli altri ci stanno dicendo e quello che per noi è chiaro per altri è totalmente diverso. E sappiamo quanto Zalone abbia sempre odiato il moralismo e il cinema che giustifica ogni sua scelta.
Meglio una battuta. Magari, alla fine, ‘’Tolo Tolo’’ è meno divertente dei suoi primi film, si sorride più che ridere, come ha detto Nichi Vendola in conferenza stampa, fa anche un grande cameo come se stesso, ma è decisamente più importante, ambizioso e difficile rispetto ai precedenti e si sente la fatica per farci pensare, per arrivare a tutti e non solamente a una fetta di pubblico. E certe battute, “è arrivato il cambiamento”, “ho parlato con i miei omologi”, “sto rimpiangendo la pizzica”, “Qui hanno fatto Il tè nel deserto… - E lo fanno ancora? – Bertolucci… - Qualsiasi marca va bene”, rimarranno. In sala dal 1 gennaio.