IL CINEMA DEI GIUSTI - QUESTO LUNGO, SOFISTICATO, ELEGANTE, COMPLESSO E SCRITTISSIMO “DRIVE MY CAR”, DIRETTO DA RYUSUKE HAMAGUCHI E TRATTO DA UN RACCONTO DI HARUKI MURAKAMI, HA DELLE BELLE PAGINE DI CINEMA, HA UN GRANDE E SOLIDO IMPIANTO LETTERARIO DIETRO, MA NON È FORSE IL CAPOLAVORO CHE DESCRIVEVANO I CRITICI DA CANNES. QUANTO AL TITOLO BEATLESIANO, ALLO SCAMBIO DI GUIDA IN AUTO, MI SEMBRA UN’ALTRA COMPLICAZIONE TEATRALE, COME QUANDO I PROTAGONISTI SI SCAMBIANO I PERSONAGGI DI “ZIO VANYA” DI CECHOV - VIDEO

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Marco Giusti per Dagospia

 

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“Noi dobbiamo vivere, zio Vanya”. Ci risiamo. Ogni tanto torna implacabile l’ombra di “Zio Vania” di Cechov, più adatto al mondo degli sceneggiati che a quello del cinema. Confesso. Mi addormentai anche all’amatissimo da tutti “Zio Vanya sulla 42ma strada”, ultimo film diretto da Louis Malle. Proprio steso.

 

In questo lungo, sofisticato, elegante, ha delle giacche e dei golfini che le signore apprezzeranno, complesso e scrittissimo “Drive My Car” diretto da Ryusuke Hamaguchi e tratto da un racconto di Haruki Murakami, premio per la sceneggiatura a Cannes tre mesi fa, e molto amato dai critici, non ci si limita a citare “Zio Vanya” o a metterlo in scena tranquillamente già mediato dalla presenza del testo di Murakami. No.

 

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Il protagonista del film, il regista Yosuke di Hidetoshi Nishiji, non solo se lo ascolta tutto il giorno in macchina, una Saab 900 turbo rosso vera punto forte della storia, ripetendo le battute a memoria di Vanya, ma lo mette in scena prima a Narita e poi a Hiroshima in una versione dove ogni attore, giapponese, coreano, filippino, cinese, parla con la sua lingua in una sorta di Babele cechoviana.

 

Così la scena finale del “Noi, dobbiamo vivere, zio Vanya” è addirittura detta con il linguaggio dei segni coreano dalla giovane ragazza muta che interpreta la nipote di Vanya. E, ammetto, è forse la scena più bella del lunghissimo film.

 

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Lungo, poi, perché ha un antefatto che è quasi un film a parte. Prima che partano i titoli e la storia del Cechov da mettere in scena a Hiroshima, con l’arrivo di un personaggio apparentemente minore, quello della ragazza, Toko Miura, che fa da autista al regista sulla sua inseparabile Saab 900 Turbo rosso, siamo già dentro il suo dramma.

 

Perché abbiamo visto come è morta, per un’emorragia cerebrale, la sua adorata moglie, Oto, Reika Ririshima, che si inventa lunghe storie fantasy mentre sta scopando col marito o quando hanno appena finito. Storie che lei, una volta dette, non è in grado di scrivere, ma che il marito ricorda perfettamente e poi trascrive, in modo che lei ci faccia dei drammi televisivi, interpretati dal suo giovane amante.

 

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Bella e intelligente, Oto è infatti infedele al marito, che soffre in silenzio per non perderla. Anche perché i due hanno perso una bambina quindici anni prima e si sono lentamente e con fatica ripresi dalla tragedia solo dopo anni. E’ Oto che ha inciso per lui tutto “Zio Vanya” su nastro e così è a lei che risponde nei suoi viaggi in macchina. Detto questo, ogni personaggio, anche l’autista Misaki, di solito muta e scontrosa, ha un dramma da raccontare che apre la storia.

 

Cechovianamente, perché ognuno di loro trova dentro “Zio Vanya” il modo per toccare la sua realtà. Non per tutti, vi avverto, anche perché è estremamente lento e le tre ore si fanno sentire, anche se siete abituati a maratone di otto ore per vedere qualsiasi serie thriller finlandese, “Drive My Car” ha delle belle pagine di cinema, ha un grande e solido impianto letterario dietro, ma non è forse il capolavoro che descrivevano i critici da Cannes.

 

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Anche se l‘apertura di ogni nuova storia, ci porta misteriosamente a seguire l’indicazione, a portarci esattamente dove vuole il regista che, invece, di chiudere le sue storie, continua fino alla fine a rilanciare.

 

Quanto al titolo beatlesiano, allo scambio di guida in auto, con Misaki che prende il posto al volante di Yosuke, entrando così dentro al suo mondo più privato, mi sembra un’altra complicazione teatrale, come quando si scambiano i personaggi di “Zio Vanya”. In sala.

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