Valerio Cappelli per corriere.it - Estratti
nastassia kinski foto richard avedon
Il 3 settembre 2015 sono diventato una notizia, il caso del giorno alla Mostra del cinema di Venezia. Fino a pochi anni fa, sotto l’elegante gazebo allestito all’Hotel Excelsior del Lido, che è la roccaforte della manifestazione, si dava la cena d’apertura del festival. Un migliaio di invitati, attori, autorità, ministri e politici locali, vertici della Biennale, sponsor, giornalisti.
Sorseggiando lo champagne offerto dalle hostess, si scendeva la bianca scalinata che porta in spiaggia, e che negli anni è stata attraversata da Claudia Cardinale e Monica Vitti, Alberto Sordi e Vittorio Gassman, e da tutti gli altri più grandi attori del mondo. E si arrivava nella enorme tensostruttura allestita per l’occasione.
nastassja kinski marcello mastroianni cosi come sei 2
Sirena inquieta
Quell’anno madrina del festival era Nastassja Kinski che, scortata da un’organizzatrice di eventi, faceva il giro dei tavoli. Nastassja non è stata soltanto una bellissima ragazza dal volto di cerbiatta che ha bruciato i tempi lavorando con Polanski e Wenders: era molto di più, era una sirena fragile e inquieta che incantava.
Nel mezzo della festa, fui presentato. L’attrice esclamò con fare minaccioso, «ah, sei tu...». E mi scagliò un bicchiere di vino rosso in faccia. Dopo pochi minuti c’era il primo lancio d’agenzia. Il mio capo cronista, di allora e di oggi, Vito D’Angelo, mi chiamò: c’è da fare un pezzo sulla lite tra Nastassja Kinski e un giornalista. Gli obiettai che il giornalista ero io. Superato un momento di reciproco imbarazzo, il Corriere rinunciò a scriverne.
Ma gli altri giornali si sbizzarrirono. E io diventai di colpo spettatore della mia vita. Tra i vari articoli uno titolava: «L’atmosfera del Lido incendiata dal litigio tra Nastassja Kinski e il cronista del Corriere. Sei uno stronzo». Qualcuno disse che lasciai il ricevimento, che sarei corso via a cambiarmi d’abito: andai poco più in là a salutare il mio amico Vincenzo Trione, critico d’arte e collaboratore del Corriere, tenendomi la macchia di vino rosso sulla camicia. La cena proseguì, cercando di allentare le curiosità.
Quell’intervista a singhiozzo
Dagospia titolò: «Nastassja Kinski è pazza o esiste una sosia che si spaccia per lei?». Tutto si era svolto in pochi secondi. Nastassja improvvisamente piombò, «ah, sei tu»; mia moglie capì l’aria che tirava e si mise tra me e lei cercando invano di smorzare i toni.
(...) Invece il retroscena è la cosa più divertente. Nastassja Kinski, come dicevo, quell’anno era madrina della Biennale cinema. Un mese prima le avevo proposto un’intervista, che lei accettò a una condizione: quella di mandarle una domanda al giorno. Accettai quella bizzarria. Un’intervista a puntate, come un feuilleton dell’800. Mi sembrava divertente. E poi avrà tempo e modo di riflettere su alcuni episodi della sua vita, pensai.
Mi scrisse nel suo italiano arrangiato alternato all’inglese: «Possiamo fare così, che la mail da lei a me viene da lei Valerio, così avrò l’impressione che è veramente lei chi mi fa l’intervista, e che parliamo lei e io. Sarebbe bello». Rispose senza alcuna mediazione o intervento di persone a lei vicine. Ho ritrovato le mail che ci scambiammo con le mie domande e le sue risposte, così emotive e palpitanti di sentimenti. Nastassja cercava «la luce e non il buio, il coraggio e non la paura, anche la paura fa parte della vita, ma lasciamo vincere l’amore». La domanda tredici era la seguente: «Ci siamo incrociati al Festival di Taormina, io stavo parlando con Antonello Venditti, che le disse che aveva conosciuto suo padre. Lei fece cenno con la bocca di non andare oltre. Le vorrei solo chiedere: che cosa non perdona a suo padre?».
Klaus Kinski è morto nel 1991. Sessantacinque anni bruciati in fretta. Quando morì, Nastassja stava lavorando a Milano alle riprese del film La bionda di Sergio Rubini: non volle dire nulla, restando chiusa in albergo. È stato l’angelo nero del cinema, il suo regista feticcio, Herzog (con cui lavorò in tre titoli cult come Aguirre, Nosferatu e Woyzeck) nel documentario che gli dedicò disse che era un attore impossibile da dirigere. E sarebbe stato folle pretenderlo. Il loro sodalizio si era interrotto bruscamente. Due utopisti in cui arte e vita si fondono. Ma Kinski aveva anche un’anima nera. Pola, sorella maggiore di Nastassja, in un’intervista a Stern disse che a casa era un orco, che aveva abusato di lei, sistematicamente, tra i 5 e i 19 anni; aggiunse che secondo il padre «era normale, dappertutto nel mondo i padri lo fanno con le loro figlie». Un sadico il cui talento al cinema si riassumeva negli occhi.
Pola ha scritto un libro sulla sua terribile infanzia, una denuncia coraggiosa e dolorosa, il ritratto di un padre privo di scrupoli che ha distrutto la sua vita. Nastassja nel 2013 commentò in un’intervista al settimanale tedesco Bild: «Sono orgogliosa di mia sorella, della forza che ha avuto nello scrivere un libro del genere. Conosco il contenuto, ho letto le sue parole». Si era già espressa, per questo mi spinsi a chiederle (forse sbagliando, forse avrei dovuto non farlo) se avesse perdonato suo padre. Col senno di poi dovevo evitare, benché fosse di dominio pubblico. Ma era una ferita non rimarginata.
citto maselli nastassja kinski foto cristina ghergo
In ogni caso, il capitolo Klaus Kinski mi sembrava inevitabile. Nell’intervista le domandai: «Lei non vuole parlare di suo padre». Proseguii rammentandole l’episodio con Venditti a cui avevo assistito. Nastassja rispose: «Quella è stata una cosa privata». Tutto qui. Non c’è una parola di più. A un certo punto del nostro strano carteggio scrisse: «Il resto scriverò una alla volta».
Proseguimmo a conversare su binari del tutto tranquilli: «Mi ritengo fortunata, il cinema mi ha salvato la vita, da adolescente poteva andare in un’altra direzione, nel buio, nell’incertezza di poter sopravvivere. Ma sono una persona solare. I miei film hanno vinto premi, mi hanno fatto capire che siamo tutti diversi e unici, senza il cinema non avrei avuto queste esperienze. E sarei stata un’altra persona. Ogni attore con cui ho lavorato mi ha dato qualcosa. È stato un grande viaggio».
Wim Wenders
Nastassja Kinski negli Anni 80, giovanissima, è stata un’icona. È una donna fragile, molto sensibile. Aveva 54 anni al tempo della nostra intervista dall’epilogo così alcolico. Cercava di proteggersi da demoni e ferite del passato. Parlammo dei suoi inizi nel cinema, a 12 anni, del manifesto della Biennale in cui il suo volto veniva rielaborato dall’artista Simone Massi, sullo sfondo c’è Jean-Pierre Léaud, l’attore feticcio di Truffaut. Mi disse che il suo volto era tratto da Così vicino e così lontano di Wim Wenders, «un disegno che mi fa sentire in sintonia con i sentimenti di mille altri artisti, mi sembra che questo manifesto catturi un’idea del nostro mondo. È un’immagine piena di mistero e di sogni, come lo sono Venezia e il cinema».
Un segno di pace
La manager di Nastassja, Elena Guastoni, nei giorni successivi fu gentilissima, mi propose di far pace con la sua cliente. Cosa mi ha lasciato quell’episodio, al di là del piccolo conto in tintoria? Nessuno si prese la briga di sapere perché Nastassja ce l’avesse con me. E quando l’ho spiegato, è caduto nel vuoto. Mi ha lasciato il dubbio sulla buona fede di un’ operazione mediatica. E un punto interrogativo sul mio mestiere.
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