Emilia Costantini per il "Corriere della Sera"
«Quella sera al Derby di Milano, locale molto borderline, me la sono vista brutta. Un tizio del pubblico, che era ubriaco, mi punta la pistola perché non lo stavo facendo ridere. Io ho reagito da vigliacco: sono rimasto fermo a guardarlo. E lui mi dice: sentiamo la prossima battuta se mi fa ridere. E io rispondo: lo spettacolo è finito, grazie e arrivederci... Insomma, non potevo rischiare di non farlo ancora ridere e di morire per una battuta poco divertente...».
Paolo Rossi non sarà coraggioso, come dice lui, ma non si sottrae alle sfide. Per esempio, quando voleva affittare un barcone, reclutare una quarantina di attori del Senegal che conosceva, fare la parte dello scafista albanese e andare sul Lago di Garda:
«Avevo intenzione di approdare a Salò e chiedere agli stupefatti abitanti del luogo: scusate, è questa Lampedusa? Per vedere l'effetto che fa».
Uno dei suoi primi successi in palcoscenico lo riscosse in «Nemico di classe» di Nigel Williams, nel ruolo di un naziskin: che cosa accadde?
«Eravamo in un teatro a Pordenone. Io recitavo un monologo razzista, ovviamente con tanta autoironia: era una lunga invettiva, assolutamente comica, contro i meridionali, i diversi, i neri... ma gli spettatori mi applaudivano ad ogni battuta come se fosse un comizio. Allora mi sono fermato e, rivolto alla platea, ho detto: i meridionali faranno pure schifo, così i diversi, come i neri, ma la peggiore gente che ho mai conosciuto in vita mia, l'ho incontrata in questo teatro... e potete andarvene tutti».
La reazione del pubblico?
«Resta fermo, non accenna ad andarsene e io ripeto: non so se avete capito, ve ne dovete andare! A quel punto si scatena la rissa, però il giorno dopo c'era la fila al botteghino, tutti curiosi di vedere lo spettacolo».
A causa delle sue invettive, lei è stato spesso censurato in tv.Il censore era Silvio Berlusconi?
«Certo! Fui censurato con il discorso di Pericle sulla democrazia ad Atene ripreso da Tucidide, poi con un Molière che non era il "malato immaginario", bensì il "medico immaginario" e il suo assistente si chiamava Previto: dissero che avevo usato un linguaggio blasfemo, che poi non c'entrava niente la blasfemia, e ci fu una causa...
che ho vinto. Infine, venni quasi scomunicato dall'Arcivescovo di Carpi per Operaccia romantica , perché considerato sacrilego... Tuttavia, devo dire che l'ex premier per noi comici era una gallina dalle uova d'oro, perché era dotato di una sua comicità involontaria e noi guadagnavamo senza faticare, bastava che ripetessimo le sue battute... un giochetto anche abbastanza umiliante per chi crede nella satira».
Perché?
«Nel caso del Berlusca, la gente rideva, applaudiva e poi lo votava, quindi ti ponevi il problema: forse ho sbagliato bersaglio. Ma la questione non riguarda solo lui: dalla metà degli anni 90, i politici in genere hanno cominciato a capire che gli spettacoli di noi comici li rendevano visibili e ci lasciavano fare. Poi hanno cominciato addirittura a farci i complimenti e persino ad imitarci».
Quale politico si è complimentato con lei?
«Ne voglio ricordare uno tanti anni fa: Francesco Cossiga. Mi arrivò una sua telefonata complimentosa, ma feci finta di non essere io al telefono, perché temevo che, oltre ai complimenti, mi avrebbe sciorinato una serie di suggerimenti su come interpretare meglio la sua parte in scena e avrei dovuto pagargli i diritti d'autore. Invece un politico, autentico genio dell'ironia, era Giulio Andreotti, una specie di Buster Keaton».
E qual è lo stato di salute della satira oggi?
«Una missione impossibile: fare l'imitazione di una imitazione non ha senso. Io imito il potente di turno quando lui è già nella società dello spettacolo in cui siamo tutti immersi, lui sta già recitando un ruolo, un'imitazione di sé stesso e imitare un imitatore significa fare la parodia della parodia. Oggi il Parlamento non è forse la parodia di sé stesso?».
Però lei continua a fare teatro.
«Cerco di fare teatro popolare, che deve tornare a essere un'assemblea, un rito collettivo come ai tempi dei greci, una sfida, un azzardo fuori dal coro, dai circuiti tradizionali. Si può mettere in scena Shakespeare in un bar, in un cortile... Solo così il teatro torna a essere "pericoloso", a fare paura e serve a qualcosa, ma non in streaming per carità».
«Meglio dal vivo che dal morto», come recita il titolo del suo libro edito da Solferino? «Esatto! Bisogna reinventare il rapporto col pubblico, invogliare la gente a esserci, sia pure con le mascherine». Ma come e perché, da perito chimico qual era, ha intrapreso la strada da attore?
«Provengo da una famiglia di teatranti. Non i miei genitori, ma mio nonno recitava con Rosso di San Secondo, mia zia vinse il campionato delle filodrammatiche. Io a 13 anni chiesi al nonno di farmi un'audizione, lui me la accordò ma andai malissimo e fu lapidario: il tuo futuro è la chimica, un impiego dignitoso. E così feci, anche se la mia passione restava quella di recitare. Ho imparato il mestiere prima per strada, poi con la compagnia milanese dei marionettisti Colla e in seguito ho incontrato maestri particolarissimi come Dario Fo, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Giorgio Strehler...».
I loro maggiori insegnamenti?
«Beh, Dario non era tagliato per fare il pedagogo, però era molto generoso nel lasciarsi rubare le sue tecniche attoriali, e questo era il suo metodo di insegnamento: mi ripeteva spesso che in teatro è importante la differenza tra rubare e copiare, perché rubare è geniale, in quanto ci metti del tuo, mentre copiare è da coglioni. Poi ho scoperto che questa frase Dario l'aveva rubata a Picasso, e ora che sono morti entrambi, la faccio mia. Enzo, era un pedagogo nato: 7 anni di lavoro con lui e ho imparato tutto.
Strehler mi sembrava quello più lontano da me: era colto, con una poetica pazzesca e nei suoi confronti nutrivo una forte soggezione. Mentre lavoravamo all'"Arlecchino" goldoniano, che avrei dovuto impersonare nello spettacolo da lui diretto, e che poi non ho mai fatto, dopo due mesi di prove a casa sua, mi fece capire che il mio Arlecchino era quello senza maschera, più legato alla mia originalità e non a quella del testo. La verità è che io ho continuato sempre a dividermi tra palcoscenico e marciapiedi. Lei pensi che, mentre ero a recitare a Torino, cominciai a frequentare un campo Rom».
Per quale motivo?
«Sono affascinato dagli emarginati, dai clochard con cui parlo spesso: io stesso come attore faccio parte di questa categoria, infatti un tempo ci seppellivano in terra sconsacrata. E così ho chiesto la cittadinanza ai Rom, ma il presidente di quella associazione, mi ha risposto: non esiste la cittadinanza Rom, al massimo possiamo prestarti una roulotte».
paolo rossi 5 cossiga andreotti
Così trasgressore delle regole tradizionali, che padre è per i suoi tre figli? «Non so se sono un buono o un cattivo padre. Certamente ho delle colpe che derivano dal mio mestiere girovago. Comunque i miei due figli maschi e una femmina, la cui età oscilla tra i 18 e i 31 anni, se la cavano piuttosto bene... i tre fratelli vanno d'accordo».
Hanno seguito le sue orme?
«Non sono attori: la ragazza è brava a scrivere, uno fa il musicista e l'altro il regista e, insieme ad altri giovani, hanno creato il "Terzo Segreto di Satira", un collettivo di videomaker satirici».
A proposito di fratelli: è vero che lei è stato scambiato per il fratello del calciatore Paolo Rossi?
Ride: «Percorrevo la Bologna-Cesena. Una pattuglia della stradale mi ferma per un controllo e, quando leggono il mio documento, mi chiedono se ero fratello del calciatore. E io ho risposto: secondo voi uno ha 12 figli e li chiama tutti allo stesso modo?».
Questa sera sarà protagonista del suo nuovo spettacolo «Stand up Omero», con la regia di Sergio Manfredi, al Festival di Teatro Antico di Veleia diretto da Paola Pedrazzini. Di che si tratta?
«È una cavalcata nell'Odissea in 60 minuti. Tutti i ventiquattro canti del poema omerico sono raccontati in un'ora. L'importanza del racconto è fondamentale per portare un conforto laico alle persone. Per me Omero forse non è mai esistito, probabilmente era il nome di una cooperativa di cantastorie. O forse tutta la storia dell'Odissea è nata da una necessità di Ulisse, che l'ha commissionata ad Omero perché non sapeva come giustificarsi con sua moglie dopo aver impiegato dieci anni per tornare a casa. Insomma, quelle storie sono eterne, parlano di natura umana».
Il Teatro di Veleia è all'aperto: e se stasera dovesse piovere?
«Qualche anno fa mi è successo proprio a Veleia: la platea era esauritissima e, quando comincia a piovere, io vengo assalito da una sorta di trance, un'estasi agonistica e, forse usando le parole del Prospero shakespeariano, ordinai al cielo di fermarsi: e la pioggia si fermò. Il giorno dopo, l'episodio finì sui giornali locali a titoli cubitali: Paolo Rossi ferma la pioggia. Pensai: adesso mi chiameranno anche per salvare il raccolto dalla grandine».
In altri termini, un comico mago?
«Beh, ho una certa predisposizione. Diceva Orson Welles: un mago è un attore che fa il mago. E io aggiungo: qualche volta ci riesce».
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