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1 - RISPOSTA DI DARIO SALVATORI A "I MÅNESKIN SONO L’ESEMPIO DEL NOSTRO PROVINCIALISMO", DI BRUNO GIURATO
Dario Salvatori per Dagospia
Sul “Domani” di venerdi 31 dicembre Bruno Giurato affronta il provincialismo italiano di certi gruppi e cantanti, partendo dal fenomeno del momento, i Maneskin, “che sembrano gli unici musicisti pop italiani autorizzati ad avere accesso ad una platea internazionale”.
Il gruppo romano ha preso molto sul serio la promozione effettuata negli States, raccogliendo plausi ed encomi da nonno Mick Jagger (il primo figlio di Jagger, Jaris, ha più del doppio degli anni di Victoria), ma il provincialismo ha poco a che vedere con tutto questo. Gli artisti italiani sono sempre stati accolti con rispetto “lirico” ma pur sempre paisà.
dario salvatori foto di bacco 82)
Il primo fu Enrico Caruso, che nel 1904 arrivò al n.1 nella già esistente hit parade di “Billboard”, grazie alla sua versione di “Vesti la giubba” ( da “I Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo). Di seguito tutti i grandi tenori: Beniamino Gigli, Tito Schipa, Mario Lanza, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Luciano Pavarotti e buon ultimo Andrea Bocelli.
Provincialismo? Diciamo il cosiddetto bel canto all’italiana che gli americani hanno sempre gradito. Dobbiamo aspettare il 1958 per vedere un exploit. “Nel blu dipinto di blu” di Domenico Modugno, che gli americani ribattezzano in “Volare”, n.1 in tutto il mondo ma soprattutto in America , proprio l’anno in cui vennero istituiti i Grammy Award e Modugno ne vinse due.
Stesso discorso per “Torero” di Renato Carosone, altro n.1, già vicino ad istanze musicali più moderne ma di fatto cantato in napoletano. Il primo pugliese (anche negli States lo definirono siciliano), il secondo napoletano. Dopo di che il vuoto. Certo, ebbero successo molte canzoni italiane: “Non dimenticar”, “Al di là”, “Quando, quando, quando”, “Io che non vivo senza te” e molte altre, ma sempre cantate in inglese da noti cantanti americani, mai i rispettivi interpreti italiani.
“Il cielo in una stanza” (eseguito in inglese con il titolo “This world we love”) da Mina non andò oltre la posizione n.90 nel 1961. Meglio Rita Pavone che nel 1964 azzeccò tre singoli “Remember me” (n.26), “Wait for me” (n.104) e “Just once more” (n.123) e un buon piazzamento fra gli album con l’omonimo “Rita Pavone” (n.60). Il tutto grazie alle tre apparizioni al popolare “Ed Sullivan Show”.
RITA PAVONE E PAUL ANKA - ED SULLIVAN SHOW
Negli anni successivi arriva il successo di Eros Ramazzotti e Laura Pausini, mai entrati nella classifica generalista di “Billboard”, ovvero i Top 200. Meglio in quella latina. In quella generalista arriva la spezina Alexia con “Number One”, n.111 nel 1998. Modesta anche l’apparizione in hit della Premiata Forneria Marconi, nonostante il costoso lancio: l’album “Photo of ghost” (n.180 nel 1973) e “Cook” (n.151 nel 1974).
Poco si è parlato dei Lacuna Coil, gruppo milanese tendenza gothic metal con “Comalies” (n.178 nel 2002) e “Karmacode” (con buona pace di Francesco Gabbani), addirittura n.28 nel 2006. Una formazione trainata dal talento della vocalist, l’inquietante Cristina Scabbia. Tutto questo è provincialismo. Non vi è dubbio.
Ma cosa dire allora dell’andamento musicale di Paesi a noi lontanissimi? Per esempio la Cina, che questa settimana vede al n.1 “Aloha hejahe” del performer e produttore tedesco Alhim Reichel; oppure l’India, dove da quattro settimane domina “Bananza belly dance” di Akon, cantante e produttore di St.Louis.
Nella sua analisi Giurato torna sul provincialismo. Che altro potrebbero fare i Maneskin che non ispirarsi ai loro eroi? E’ chiaro che il loro non è un prodotto innovativo, piuttosto derivativo. Qui ci sono quattro ragazzi che hanno passato ore, giornate e mesi e studiare il più piccolo frame della postura dei grandi: da Bowie e Bolan, da Jagger a Gary Glitter, e ci vado a mettere pure gli Slade. Alla fine il discorso diventa serio. Si ricorda il viaggio di Alan Lomax con suo padre nel sud Italia, per registrare l’autentica musica popolare, con un lavoro puntiforme sul territorio.
I due ricercatori - che a Foggia nel 1953 incontrarono nientemeno che Johnny Cash, di stanza nell’aviazione Usa - non riuscirono a convincere le istituzioni a pubblicare almeno una parte di quel materiale.
Quelle stesse istituzioni che negli anni Settanta e Ottanta svuotarono le casse del Mezzogiorno per ingaggiare i celebri degli anni Sessanta, quando le Berti, le Zanicchi, i Remigi, i Nazzaro e altri non erano ancora entrati nelle grazie di quei conduttori televisivi che poi li ridicolizzarono nei loro programmi.
Non si parlava più di tradizione locale ma di Cantagiro. Nei Novanta arriva il miracolo: sindaci e assessori alla cultura scoprono pizziche e tarante, saltarello e tarantella. Il 90% confluisce in questo comparto, si creano addirittura solisti e gruppi per riempire le piazze. Quando troppo e quando niente, purtroppo con un prodotto molto scadente.
Giurato chiude con un’affermazione difficilmente condivisibile, ovvero che sostenere la lingua anglo-sassone si presti più di quelle latine alla musicalità, sia una eresia, anzi “il K2 della fesseria”.
E allora perché Lucio Battisti, Alan Sorrenti, Zucchero, Riccardo Cocciante e compagnia cantando (male) hanno fallito? Più furbi quelli che nemmeno ci hanno provato: Vasco Rossi, Renato Zero, Antonello Venditti, Francesco De Gregori….sempre compagnia cantando.
2 - I MÅNESKIN SONO L’ESEMPIO DEL NOSTRO PROVINCIALISMO
Bruno Giurato per “Domani”
Dopo un anno di fenomeno Måneskin succede che, con tutta la simpatia, un po’ ti scocci di notare come sembrino gli unici musicisti pop italiani autorizzati ad avere accesso a una platea internazionale.
E siccome la Storia conta – anche quella delle Guerre Puniche conta – scrivi un articolo per raccontare la vicenda di un assassinio rituale. Un cold case della metà degli anni ‘50. La vittima è la musica popolare italiana alla sua prima possibilità discografica. Il testimone è il più grande musicologo del ‘900, Alan Lomax. I documenti sono poco noti.
È una vicenda passata che spiega un atteggiamento attuale: il provincialismo del pop italiano.
maneskin miglior band rock agli ema 10
Provincialismo significa sentirsi “provincia”: periferici, inadeguati e cercare conferme in un centro che dovrebbe garantire l’identità che non ci si sente di avere. Come chi arriva in una grande città da un paese, e dopo un anno parla con l’accento di Roma o di Milano.
MUSICA POPOLARE
Al pop italiano è successo questo. Lomax, a metà degli anni ‘50 aveva registrato la musica popolare italiana di tutte le regioni. L’aveva definita la più importante d’Europa.
Le istituzioni culturali italiane non hanno pubblicato le sue registrazioni e non hanno dato retta alla sua idea imprenditoriale: incentivare piccole stazioni radio locali, che si sarebbero mantenute con la pubblicità del territorio, e avrebbero passato la musica delle varie regioni.
Hanno puntato su Sanremo: che, sotto lo strato di bel canto “leggero”, era fatto di tradizione dei musical (New York) e arrangiamenti Usa (Swing, ecc.). Morale. Mentre il pop di molti altri paesi è cresciuto a partire da archetipi tradizionali, in Italia questo non è successo.
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Esempi esteri. La storia musicale afro-americana è la storia di una penetrazione della radice nera all’interno del mondo musicale europeo/coloniale. L’impronta africana ha rivoluzionato la melodia, l’armonia, il ritmo, usando blue notes, sostituzioni armoniche, poliritmi, improvvisazione.
A differenza nostra, i neri, per quanto schiavi, non si sentivano provinciali. Hanno decostruito e poi ricostruito i dispositivi armonici, melodici, compositivi, sonori, occidentali.
Il più grande regalo che l’Africa (per Hegel era il «continente senza Storia») ha fatto alla cultura mondiale è stato la musica del Novecento. Oggi chiunque ascolta un drumbeat, o suona una pentatonica sta rendendo tributo all’Africa.
DALLA SPAGNA ALLA JAMAICA
Altri esempi. Il flamenco spagnolo. Il fado portoghese. Il reggae giamaicano. Le musiche caraibiche, salsa, mambo, reggaeton. La ripresa celtica, da Bert Janish (plagiato dai Led Zeppelin) ai Fairport Convention, ad Alan Stivell in Bretagna.
L’onda delle musiche dell’est Europa (remember Goran Bregovic?), le musiche “di ritorno” africane come il rai maghrebino, dal Mali (remember Salif Keïta?) alla Nigeria (remember Fela Kuti?). Ci sono esempi infiniti di musiche non provinciali, ma che da villaggi, paesi, regioni, sono diventate mondiali.
Questo in Italia non è successo. Per provincialismo, nel senso spiegato all’inizio, si è continuato a copiare i modelli Usa. I Måneskin sono solo l’ultimo anello della catena. Sanremo, ad esempio, ha responsabilità molto più rilevanti.
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Ma se oggi si dice a qualcuno “lallallero di Ceriana” la reazione è una risata o occhi vuoti. Se si dice “tarantella” si pensa alla ‘ndrangheta, non a un poliritmo che oscilla tra 2/4 e 3/4 (che quasi nessuno sa suonare e nemmeno solfeggiare).
Se a cena si mette su un canto di pescatori di pesce spada di Scilla ci sono buone possibilità che qualcuno vada via inciampando per le scale e sostenendo di avere lasciato la macchina in doppia fila. Un canto di carcerati di Favignana degli anni ‘40 fa scappare dalla finestra, un canto black di un penitenziario dell’Alabama degli anni ‘40 fa girare il whiskey nel bicchiere.
LE ECCEZIONI
Il tutto deriva da quel sacrificio rituale di cui si parlava nelle prime righe. Il mainstream italiano è nato non-italiano. Eccezioni. La ricerca sul popolare degli anni 70-90, Nuova compagnia di canto popolare, Musica Nova, Canzoniere del Lazio, Re Niliu in Calabria, La Ciapa Rusa in Piemonte.
Le contaminazioni napoletane, che germogliano da un’identità forte: Roberto De Simone, i Napoli Centrale di James Senese, Pino Daniele, il jazzista Antonio Onorato, i rapper di Napoli (La Famiglia, 13 Bastardi, Co Sang, Speranza e oltre). Antonio Infantino, che si è inventato una tradizione plausibile.
Il crazy diamond che è stato il rock demenziale, che arriva da Petrolini, da Luigi Russolo (compositore futurista), dal ‘77 bolognese, da un punk neurologicamente sfrenato, e si va dagli Skiantos a Elio e le storie tese, e passa da Sandro Oliva and the blue Pampurio’s. Gli inverosimili Cccp e Csi.
Franco Battiato, il cui essere popstar era però solo una modalità dell’essere avanguardia, e che si è servito del guizzo sulfureo etneo con intenti di citazione fuori contesto. Poteva scrivere “Un’estate al mare”, come canticchiare “Lady Madonna”, facendo musica supercolta. Giochi sacri.
SKIANTOS d d ad c d c d aa c cc
Quasi tutti gli artisti di cui ho parlato – dimenticandomene troppi – non sono esportabili. Perché in Italia c’è stato un Alan Lomax, e non un Chris Blackwell, l’uomo che ha reso famoso il mondo il reggae. Lomax non era ricco, Blackwell sì. Evviva i mecenati.
E a un anno dal successo dei Måneskin diciamo pure evviva i Måneskin. Che sono stati il solo pretesto per raccontare questa storia. Hanno dei meriti: una presenza sonora forte, avere convinto i discografici italiani ad ascoltare – speriamo a produrre – gruppi rock, canzoni fatte con le corde e coi tamburi, non solo con melodyne e autotune.
Per il resto, a un anno dall’esplosione del fenomeno, diciamo pure che i Måneskin più che rock sono la nostra proiezione del rock. Sono anche il simbolo di un presunto “rinascimento italiano” sul quale ci sono molti dubbi.
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Damiano forse farà Paul Newman nel prossimo film su Paul Newman (complimenti), Damiano aiuta l’oasi felina di Pianoro (w i gattini). Damiano fa gli auguri di Natale nudo col gattino. Gli odianti li odiano. Gli amanti li amano, e odiano. Chiunque si permetta di criticare.
Quindi succede che a un anno dal successo dei Måneskin scrivi un articolo per criticare i Måneskin, in quanto inconsapevoli portavoce di una tradizione con le radici mozzate. Ti scrivono, anche, per prenderti a maleparole. È nel gioco delle cose.
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ACCETTARE LE CRITICHE
Significativo il tono “emozionale” di diversi attacchi. Il fatto che alcuni prendano una critica per un insulto alla mamma, è un corso di sociologia ipermoderna e populismo social. Uno ti scrive che nella critica «1 vale 1», come un grillino vecchio. E poi aggiunge che «la lingua anglosassone si presta più di quelle latine alla musicalità».
È il K2 della fesseria. Alcuni ti danno del boomer ed è quasi tutta gente sui quaranta/cinquanta che si vuole sentire “giovane e vitale” (cit. Boris, La locura). L’espressione “boomer” andrebbe abolita in un comma del prossimo decreto sul Covid: “vaccinatevi, e non usate la parola boomer”.
Un altro ti strilla che Carmelo Bene li avrebbe amati, e Franco Battiato pure. Problema: entrambi sono mancati e non si può sapere cosa penserebbero. E la retorica giornalistica del “cosa penserebbe” uno che è morto è olio essenziale di fesseria.
DAMIANO MANESKIN MANUEL AGNELLI
Forse si dimentica di dire che Zeus, Gilgameš, Visnu e Ra si sarebbero calati sugli arti di Damiano per fargli le unghie. Sarebbe più simpatico. E meno “simp”. Ecco, i toni di questi difensori “emozionali” dei Måneskin fanno pensare alla categoria dei “simp”, quelli che stanno in una condizione di sottomissione nei confronti di un amore, e investono tempo sentimento, soldi, in una friendzone.
Suvvia, non fate parte della “simp nation”, accettate qualche critica sui Måneskin. A loro non fa male, garantito. Nessuno vi proibisce di ascoltarli, tranquilli. Certe volte è giusto interrompere un’emozione. E poi, a leggere bene, si parlava, solo, di un assassinio rituale.