"LA PIÙ GRANDE SCOMMESSA DELLA MIA VITA? SPOSARMI. NON RIUSCIVO A TENERE IL MIO PENE NEI PANTALONI" - ROBBIE WILLIAMS CONFESSIONS: "IN ITALIA ERO CONSIDERATO IL CATTIVO CHE AVEVA DISTRUTTO I TAKE THAT. NON CREDO CI FOSSE QUESTA NARRAZIONE NEL REGNO UNITO. HO LASCIATO LA BAND, E LE RAGAZZE ERANO TRISTI, TUTTO QUI" - "GLI OASIS MI SNOBBAVANO PERCHÉ VENIVO DA UNA BOY BAND. RAPPRESENTAVANO IL SIMBOLO DELLO SNOBISMO CHE CARATTERIZZAVA L’INDUSTRIA MUSICALE DI ALLORA"
robbie williams cover vanity fair
Robbie Williams è il protagonista del nuovo numero di Vanity Fair. In un’intervista esclusiva al magazine, l’icona degli anni Novanta e Duemila si racconta in occasione dell’uscita nelle sale di Better Man, il film sulla sua vita diretto da Michael Gracey in uscita il primo gennaio. Il biopic racconta la parabola della star: l’ascesa, la caduta e la rinascita. E ancora: i rapporti familiari, il successo, le ombre della depressione e delle dipendenze, i Take That, la carriera solista, i concerti davanti a folle sterminate.
Qual è stata la scommessa più grande della sua vita?
«Sposare mia moglie (l’attrice Ayda Field, ndr). Non riuscivo a tenere il mio pene nei pantaloni, e lo sapevo. Sposarmi serviva più o meno ad abbracciare uno stile di vita monogamo. E sapevo anche che avrei potuto perdere metà di tutto ciò che avevo guadagnato. Ecco perché, in termini concreti, è stata quella la scommessa più grande.
Ma l’altra è stata sognare. Da dove vengo io, queste cose non succedono a persone come me. E finché non le sogni, finché non ci provi... l’album Swing When You’re Winning, Rudebox, i video, le cose che dico nelle interviste, nei talk show: sono tutti azzardi. Ognuno di loro avrebbe potuto essere il disastro totale o un successo».
A lungo si è pensato che fosse stato lei a lasciare i Take That, il film invece racconta che fu accompagnato alla porta.
«Tutta la parte sui Take That potrebbe essere un film a sé. Non ci sono veri cattivi nella band. Eravamo solo ragazzi che cercavano di capire chi fossero, immersi in un ambiente tossico ed estremo. Qualcuno mi ha detto che in Italia si pensava che volessi diventare il cantante principale della band».
Ha sofferto di essere stato considerato il villain che ha distrutto la band?
«Non credo ci fosse questa narrazione nel Regno Unito. Ho lasciato la band, e le ragazze erano tristi, tutto qui. Ma sì, mi ha colpito sapere che in Italia si pensava fossi io il cattivo. Però va bene così. Non mi disturba».
Ha scritto che Nigel (Martin-Smith, manager dei Take That di cui si parla nel film Better Man ndr) dovrebbe dire che quella era una dimensione di successo totalmente nuova per tutti voi, che lui non ha saputo gestirla e che avrebbe voluto essere più d’aiuto a voi ragazzi. Ognuno di voi ha avuto gravi problemi di salute mentale. Prova ancora rancore?
«No. Non è più tempo di essere arrabbiati. Ma questo non significa che non abbia qualcosa da dire su ciò che è accaduto. Credo che fossimo soldati del pop, l’esercito di riserva del pop. C’erano regole ferree: secondo Nigel, dovevamo essere percepiti come sempre disponibili. Capisco il ragionamento, ma non avrebbe dovuto impedirci di vivere relazioni in segreto».
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Gli Oasis la snobbavano perché veniva da una boy band?
«Sì, penso che rappresentassero il simbolo dello snobismo che caratterizzava l’industria musicale di allora. Era qualcosa di estremo, un fenomeno che mi faceva sentire inferiore. E per qualcuno che già lotta con il proprio senso di valore personale, non era certo d’aiuto.
Sembrava che tutti i miei coetanei, che ammiravo e adoravo, mi odiassero. Sembrava persino universalmente accettato che fossi odiato da tutti, tranne che dalle persone che venivano ai miei concerti. Così ho finito per pensare di essere detestabile, non amabile, antipatico. Erano in tanti a trattarmi così, ma loro sono diventati il volto di quel particolare periodo della mia vita».
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