Michele Serra per "la Repubblica"
Effettivamente la spigolatrice di Sapri mostra il culo, su questo non c'è dubbio. La si è guardata a lungo, tutti, ben oltre, diciamo così, il dovere di cronaca. E dunque vale la critica che quella posta in Sapri a futura memoria dallo scultore Stifano sia una statua "ipersessualizzata" rispetto all'oggetto in questione, che è una contadina meridionale di un paio di secoli fa: molto difficile, secondo qualunque informazione storica e iconografica a nostra disposizione, che mostrasse il culo.
Né la (brutta) poesia di Luigi Mercantini, della quale la statua è comunque un miglioramento, autorizza a pensarlo. Detto questo, ciò che sbalordisce non è la ragione della critica, che non è solo legittima, è anche giusta. È il tono.
Dall'abbattimento in su, e in giù, pare che quel bronzo costituisca volontaria offesa alla libertà delle donne di non apparire come un oggetto sessuale: argomento così indiscutibile, e così forte, che ci si meraviglia possa essere messo a repentaglio da un paio di natiche di bronzo. Ecco, forse l'epoca della suscettibilità è soprattutto l'epoca della fragilità. Ci si sente messi a repentaglio da molto poco, da un'opinione avversa, da un luogo comune consumato, da una statua sgradita.
Come se debolissima fosse la percezione delle proprie ragioni, che altrimenti non vacillerebbero per così poco. Il rischio - altissimo - è che le migliori cause, per fanatismo, per rigidità, per moralismo, per emotività, diventino impopolari e sgradite: perché ipercensorie, che siccome il troppo stroppia vale quanto ipersessuale. Così che qualcuno possa pensare, alla fine, che il contrario di ipersessuale è sessuofobo, e dunque il vero vulnus non siano le chiappe della spigolatrice di Sapri, ma le chiappe in genere