Irene Famà per la Stampa
Duemilacinquecento euro per picchiare il figlio omosessuale. Per «spezzargli le mani». Distruggerlo fisicamente e professionalmente. Perché con le mani quel figlio, medico chirurgo di quarant' anni, è diventato qualcuno.
L'ha fatto pedinare, l'ha minacciato, l'ha insultato. E ora, finito davanti a un giudice in un'aula del Tribunale di Torino, il padre mandante del pestaggio ha patteggiato una pena a due anni di reclusione. Senza risarcire il danno. «La pietra dello scandalo è stata tre anni fa, quando sono stato paparazzato al mare, in Francia, con un attore molto noto».
Per raccontare questa vicenda, la storia di un padre che non riesce ad accettare la sessualità e l'autonomia del figlio, bisogna partire da lì. Da quella foto, finita su qualche giornale scandalistico e considerata un affronto. Quel padre non solo non condivideva le scelte sentimentali del figlio, ma doveva accettare di condividerle pubblicamente. E il suo ragazzo, ormai adulto e medico affermato, non era più sotto il suo controllo. «Prima della fine del 2016 eravamo una famiglia normale», racconta il chirurgo.
«Poi ho raggiunto l'indipendenza economica». Apre uno studio. Presenta il compagno alla famiglia. «Era la prima volta che parlavo della mia omosessualità. Mia madre stava molto male e volevo renderla partecipe della mia vita prima di perderla. Mio padre, all'inizio, l'aveva presa bene. Il mio compagno veniva a pranzo, a cena. Mi aspettavo una reazione paterna, non una cosa del genere».
Quel genitore diventa un nemico. Si scaglia contro la moglie, che dopo 42 anni di matrimonio decide di separarsi. La minaccia, la picchia. E nell'aprile 2017 assolda un uomo per massacrare il compagno del figlio. Poi lo ingaggia per pedinare la coppia. «Un giorno esco dallo studio e mi avvicina un tizio. Mi dice che mio padre l'ha pagato per spezzarmi le mani. Mi dice anche che non ha nessuna voglia di farlo, gli sono sembrato un bravo ragazzo e non vuole rovinarmi la vita». Quell'uomo, però, non vuole nemmeno rinunciare ai soldi. «Abbiamo finto un'aggressione. Così da poter fornire a mio padre delle prove fotografiche». Lo stesso per le ruote dell'auto: «Io e mia madre avevamo preso due auto nuove e mio papà aveva pagato quell'uomo per bucarci le gomme».
Voleva distruggere la vita del figlio. «Si droga, è malato, è un ubriacone», diceva. Suo figlio oggi racconta: «Non riesco a trovare una spiegazione a tutto questo. Mi sono rivolto anche a uno psicologo. Avrei potuto accettare che mio papà avesse dei problemi psichici. E invece no».
Quando ha deciso di denunciare? «A maggio 2018. All'inizio non volevo, avevo paura. Per più di due anni ho vissuto sotto scorta. I miei amici mi venivano a prendere e mi riportavano a casa. Li tenevo costantemente aggiornati sui miei spostamenti. Avevo paura anche solo ad andare in giardino, perché temevo che qualcuno potesse saltare la recinzione. È vero, quell'uomo pagato per picchiarmi mi aveva avvisato, ma un altro avrebbe fatto lo stesso?». Denunciare il padre, per lui, è stato il momento più difficile. Il periodo tra la denuncia e il processo, la fase più critica.
«Prima non ho avuto il tempo di fermarmi. Dovevo essere forte per difendere mia madre, il mio compagno. Mi sembrava che nessuno mi ascoltasse, che nessuno mi credesse. Qualcuno mi ha anche accusato di portare avanti una ripicca contro papà». I due non si parlano più se non tramite avvocati. «Perdonarlo? Lasciamo perdere quello che è successo a me. Non posso perdonare quello che ha fatto a mia madre e al mio compagno. Un genitore può non comprendere la vita di un figlio, può non condividerne le scelte, ma una tale violenza non ha giustificazione. Mi sono interrogato tante volte sulle sue azioni. Forse gelosia, forse invidia. Forse non sopportava che sfuggissi al suo controllo. Io come mia madre». Sui social, il padre scriveva: «La vendetta è un piatto che va consumato freddo». Ma vendetta per cosa?