Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera"
La telecamera segue un ragazzo con la barba e il trolley che esce dall'aeroporto del Cairo per infilarsi in un taxi.
L'incipit è convenzionale, lo svolgimento meno: il preteso documentario «The story of Regeni» del giornalista Fulvio Grimaldi (nel suo curriculum anche articoli negazionisti del Covid 19) approda in Rete alla vigilia della decisione del giudice per le udienze preliminari di Roma sul rinvio a giudizio dei quattro militari dei Servizi segreti egiziani accusati del rapimento e delle torture di Giulio Regeni.
E tenta di accreditare - utilizzando perfino testimonianze «eccellenti» fra le quali gli ex ministri Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta - l'ipotesi di un Regeni pedina dei Fratelli musulmani, agente straniero atterrato in Egitto con scopi eversivi. Né più né meno che la versione offerta dalle stesse autorità egiziane in questi lunghi cinque anni di indagini.
Gli argomenti, qui e là, coincidono con quelli prospettati dal governo del Cairo, primo fra tutti quello secondo il quale il ricercatore friulano avrebbe percepito sovvenzioni opache per effettuare il suo lavoro in Egitto. Un argomento già affrontato e risolto da Ros e Sco coordinati dal pubblico ministero della Procura di Roma Sergio Colaiocco.
Nulla di opaco. Dopo una analisi sui movimenti bancari di Regeni, gli investigatori hanno trovato che il ragazzo percepiva solo i finanziamenti delle borse di studio universitarie ottenute per la sua attività di ricercatore.
E ancora, altro elemento mutuato dalle autorità egiziane, il fatto che gli investigatori del Cairo non abbiano avuto accesso - così si sostiene nel filmato di Grimaldi - al pc di Regeni, mentre dal 2016 gli investigatori italiani hanno messo a disposizione copia forense del pc in questione.
Restano le domande, una fra tutte: come mai questo video proprio alla vigilia del processo a Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Usham Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, i funzionari dell'intelligence egiziana sotto accusa per la morte di Giulio Regeni?
Vorrebbe una risposta il parlamentare Pd Filippo Sensi che, nell'immaginare «l'ennesima pena di Paola e Claudio Regeni alla vista di questo documentario, comparso dal nulla a screditare l'immagine di Giulio», si augura che sia fatta luce «sulla genesi del filmato attraverso un'inchiesta ad hoc».
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E di «depistaggi sistematici» parla la Procura di Roma negli atti depositati in vista dell'udienza preliminare prevista per stamani alle dieci: «Fin dall'inizio sono stati posti in essere da molteplici attori plurimi tentativi di sviamento dell'indagine finalizzati a distogliere l'attenzione degli investigatori dagli appartenenti agli apparati pubblici egiziani» è scritto.
Perfino l'autopsia è stata rielaborata ad uso e consumo di una versione di comodo, scrivono i pm romani. La relazione del medico legale del Cairo tentò di accreditare l'idea di una morte per incidente stradale di Giulio, scaturita da ferite alla testa tipiche del caso.
Fino alla messinscena attraverso la quale si è tentato di riversare la responsabilità della fine del ragazzo su una banda di criminali comuni, a casa dei quali sono stati fatti rinvenire documenti e oggetti del ricercatore.
Ora, grazie alle indagini svolte con il supporto dell'avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, sappiamo che la verità è altrove.