Articolo di Martin Wolf per Financial Times pubblicato da “il Fatto quotidiano”
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"Anche se le singole aziende che rappresentiamo perseguono scopi aziendali privati, collettivamente noi condividiamo tutti un impegno fondamentale nei confronti di chiunque sia interessato dalle nostre attività". Con questa frase, l' associazione americana Business Roundtable, che riunisce i capi di 181 tra le più grandi aziende del mondo, ha sancito l' abbandono del tradizionale principio per cui "le aziende esistono essenzialmente per fare gli interessi dei loro azionisti", e solo i loro. È stato senza dubbio un evento. Ma qual è, e quale dovrebbe essere, la sua esatta portata?
Per rispondere è necessario partire dalla constatazione che finora qualcosa è andato storto. Nel corso degli ultimi 40 anni, soprattutto negli Usa, ha preso il sopravvento una sorta di trinità diabolica composta da rallentamento della produttività, inasprimento delle disuguaglianze ed esplosione di enormi choc finanziari.
Come hanno osservato Jason Furman dell' Università di Harvard e Peter Orszag di Lazard Frères in un articolo dell' anno scorso: "Dal 1948 al 1973, il reddito mediano reale delle famiglie negli Stati Uniti è aumentato del 3% all' anno. A questo ritmo () la probabilità che un figlio avesse un reddito superiore a quello dei suoi genitori era del 96%. Dal 1973 in poi il reddito della famiglia mediana è cresciuto invece solo dello 0,4% all' anno (), con la conseguenza che il 28% dei figli oggi ha un reddito inferiore a quello dei genitori".
La produttività al palo Come mai l' economia non produce? La responsabilità è in gran parte dovuta all' espansione del capitalismo di rendita, che accumula e non investe. "Rendita" significa in questo caso un livello di benefici che eccede di gran lunga la soglia necessaria a indurre l' offerta di beni, servizi, terreni o manodopera nella società.
Così il "capitalismo della rendita" descrive un' economia in cui il potere politico e di mercato permette a un numero ristretto di individui e grandi aziende di estrarre una grande quantità di profitti da tutti gli altri. Da solo, tuttavia, questo fenomeno non basta a spiegare i risultati deludenti degli ultimi anni.
Come sostiene Robert Gordon, professore di Scienze sociali alla Northwestern University, nella seconda metà del XX secolo si è verificato anche un rallentamento del tasso di innovazione. La tecnologia, inoltre, ha creato una maggiore dipendenza delle economie dai laureati aumentando i loro salari relativi, fenomeno che spiega in parte la crescita delle disuguaglianze. Ma la quota di ricchezza detenuta dall' 1% dei redditi più alti è passata dall' 11% del 1980 al 20% nel 2014, e questo non si può spiegare soltanto con il mutamento tecnologico.
LA MAPPA DELLE POPOLAZIONI GLOBALI TRA CINQUE ANNI
Lo spauracchio stranieri A sentire i dibattiti politici in corso in molti Paesi, specie negli Usa e nel Regno Unito, si potrebbe concludere che la performance deludente dell' economia sia dovuta alle importazioni dalla Cina o agli immigrati a basso salario, o a entrambe le cose. Gli stranieri sono i capri espiatori ideali, ma l' idea che l' aumento delle disuguaglianze e il rallentamento dell' incremento della produttività siano dovuti agli stranieri è falsa.
Hong Kong registra una grande disuguaglianza sociale
Qualunque Paese occidentale ad alto reddito oggi intrattiene più scambi commerciali con i Paesi emergenti di quanto non facesse quarant' anni fa. Tuttavia, l' aumento delle disuguaglianze è variato in modo sostanziale da Paese a Paese, e questo è dipeso dal diverso comportamento delle singole istituzioni dell' economia di mercato e dalle scelte di politica interna.
Nella sua panoramica dell' ampia letteratura accademica sul tema, l' economista di Harvard, Elhanan Helpman, giunge alla conclusione che "la globalizzazione basata su commercio estero e delocalizzazione non è stata un grande fattore di aumento delle disuguaglianze. Lo confermano numerosi studi su vari eventi in tutto il mondo". Lo spostamento di molte attività produttive all' estero, principalmente in Cina, potrebbe aver parzialmente ridotto gli investimenti nelle economie ad alto reddito, ma questo effetto non può essere stato abbastanza forte da ridurre in modo significativo l' incremento della produttività. ()
Il presidente Trump, invece, ragiona da mercantilista ingenuo e sostiene che la causa della perdita di posti di lavoro stia negli squilibri commerciali bilaterali, risultato di cattivi accordi commerciali. È vero che la bilancia commerciale degli Stati Uniti è in disavanzo, mentre quella dell' Unione europea è in surplus, ma le politiche commerciali delle due aree sono abbastanza simili.
Queste non spiegano gli equilibri bilaterali, e gli equilibri bilaterali non spiegano gli equilibri globali. () Le ricerche mostrano che l' effetto dell' immigrazione sul reddito reale della popolazione nativa e sulla posizione fiscale dei Paesi di accoglienza, è stato molto limitato e spesso positivo. Piuttosto che concentrarsi sui danni causati dal commercio e dalla migrazione, idea politicamente remunerativa ma sbagliata, è molto più produttivo prendere in esame il capitalismo della rendita contemporaneo.
Il dogma della rendita La finanza gioca qui un ruolo chiave, a vari livelli. Quando viene liberalizzata tende alla metastasi, perché comincia a finanziare redditi, profitti (spesso illusori) e le sue stesse attività con la sua capacità di creare credito e denaro. Uno studio del 2015 di Stephen Cecchetti ed Enisse Kharroubi per la Banca dei Regolamenti Internazionali afferma che "lo sviluppo finanziario è positivo solo fino a un certo livello, oltre il quale diventa un freno alla crescita. E un settore finanziario in rapida crescita è dannoso per la crescita della produttività aggregata".
Quando il settore finanziario cresce rapidamente, dicono gli autori, fa sì che vengano assunte persone di talento, che poi finiscono a fare mutui immobiliari, perché offrono più garanzie, distogliendo così risorse umane di talento per impiegarle in settori improduttivi e inutili. Anche in questo caso la crescita eccessiva del credito porta quasi sempre a crisi, come hanno dimostrato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff nel libro Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria (Il saggiatore, 2010).
Questo è il motivo per cui nessun governo si sognerebbe mai di lasciare che il settore finanziario (ipoteticamente "orientato dal mercato") operi da solo e senza guida. Ma ciò crea a sua volta per la finanza enormi opportunità di guadagnare nella totale irresponsabilità: una sorta di gioco del lancio della moneta in cui se esce testa vincono loro e se esce croce perdiamo tutti. La crisi è garantita.
La finanza scava poi disuguaglianze sempre più grandi. Thomas Philippon della Stern School of Business, e Ariell Reshef della Paris School of Economics hanno dimostrato che i guadagni relativi dei professionisti della finanza sono esplosi negli anni 80, dopo la deregolamentazione della finanza. Hanno anche stimato che gli "utili" rappresentavano tra il 30 e il 50% del divario retributivo con il resto del settore privato.
Questa esplosione dell' attività finanziaria a partire dagli anni 80 non ha aumentato la crescita della produttività. Semmai l' ha abbassata, soprattutto dopo la crisi. Vale lo stesso per l' esplosione delle retribuzioni dei manager, che non è altro, di fatto, che un' altra forma di estrazione di rendita.
Come osserva Deborah Hargreaves, fondatrice dell' High Pay Centre, nel Regno Unito il rapporto tra la retribuzione media di un amministratore delegato e il salario medio di un lavoratore è passato da 48 a 1 nel 1998 a 129 a 1 nel 2016. Negli Usa lo stesso rapporto è passato da 42 a 1 nel 1980 a 347 a 1 nel 2017. () Il fatto di essere pagati in proporzione al prezzo delle azioni della propria azienda ha dato ai manager un incentivo enorme a far sì che quel prezzo si alzasse sempre di più, a costo di manipolare i guadagni o contrarre prestiti per acquistare azioni. Senza aggiungere nessun valore alle aziende, ma producendo solo una grande quantità di ricchezza per gli stessi manager. Un problema correlato è rappresentato poi dai conflitti di interessi, in particolare per l' indipendenza dei revisori dei conti.
In sintesi, le decisioni delle aziende sono prese sulla base di considerazioni finanziarie personali dei loro manager. E, come ricorda l' economista indipendente Andrew Smithers nel suo libro Productivity and the bonus culture, tutto ciò avviene a spese degli investimenti aziendali e quindi della crescita della produttività.
Nessuna concorrenza Una questione forse ancora più fondamentale è il declino della concorrenza. A proposito degli Stati Uniti, Jason Furman e Peter Orszag affermano che esistono le prove di un aumento del tasso di concentrazione del mercato, di una diminuzione del tasso di ingresso di nuove imprese e, infine, di una riduzione della quota di ricchezza detenuta da imprese giovani rispetto a 30 o 40 anni fa.
(). Tutto ciò è indice di un indebolimento della concorrenza e di un aumento delle rendite monopolistiche. Inoltre, gran parte dell' aumento delle disuguaglianze deriva dall' esistenza di enormi divari salariali per i lavoratori con competenze simili che lavorano in imprese diverse: un' altra forma di estrazione di rendita.
Una parte della spiegazione è data dall' avvento di sempre più mercati dove "chi vince prende (quasi) tutto": le superstar del mercato e le loro aziende acquisiscono rendite monopolistiche che è difficile scalfire (). Gli esempi lampanti sono le esternalità di rete, ovvero i vantaggi derivanti dall' utilizzo di una rete usata anche dai concorrenti, e i costi marginali nulli di piattaforme monopolistiche come Facebook, Google, Amazon, Alibaba e Tencent.
Un' altra forza naturale di questo tipo è rappresentata dalle esternalità di rete degli agglomerati, come ha segnalato Paul Collier nel suo The Future of Capitalism. Le aree metropolitane di successo come Londra, New York, la Bay Area in California, generano potenti meccanismi di feedback attirando e premiando persone di talento. Ciò va a svantaggio delle imprese e delle persone che restano nelle città che restano indietro. () Tuttavia, la rendita monopolistica non è solo il prodotto di queste tendenze economiche, naturali seppur preoccupanti. È anche il risultato della politica. Negli anni 70, negli Usa, il giurista Robert Bork sosteneva che il "benessere dei consumatori" dovrebbe essere l' unico obiettivo delle politiche antitrust.
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() L' effetto è stato una certa condiscendenza nei confronti del potere monopolistico, purché mantenesse i prezzi bassi. Ma gli alberi ad alto fusto privano gli alberelli della luce di cui hanno bisogno per crescere, e lo stesso vale per le aziende giganti. () L' evasione fiscale Un aspetto veramente disdicevole del principio della continua ricerca di accrescere le rendite è l' altissima evasione fiscale.
Le grandi imprese (e quindi anche i loro azionisti) traggono beneficio dai beni pubblici (sicurezza, sistemi legali, infrastrutture, forza lavoro istruita e stabilità sociopolitica) forniti dalle più potenti democrazie liberali del mondo, ma sono anche nella posizione perfetta per sfruttare le scappatoie fiscali, specialmente quelle aziende in cui è difficile determinare l' esatta localizzazione della produzione o dell' innovazione.
International Business Machines Corporation IBM
Le maggiori sfide della tassazione per le grandi aziende sono rappresentate dalla concorrenza fiscale, l' erosione della base imponibile e il trasferimento degli utili. La prima è visibile nel calo delle aliquote fiscali, le ultime nel trasferimento della proprietà intellettuale nei paradisi fiscali, nella crescita di debiti deducibili dalle imposte sugli utili maturati nelle giurisdizioni a tassazione più elevata e, infine, nella manipolazione dei prezzi di trasferimento tra un' impresa e l' altra.
Uno studio del Fmi del 2015 ha calcolato che l' erosione della base imponibile e il trasferimento degli utili hanno ridotto le entrate annuali a lungo termine nei Paesi Ocse di circa 450 miliardi di dollari (ossia l' 1% del Pil) e nei Paesi non Ocse di poco più di 200 miliardi di dollari (l' 1,3% del Pil). Si tratta di cifre significative nel contesto di una tassazione che nel 2016, nei Paesi Ocse, è cresciuta in media soltanto del 2,9% del Pil, e solo del 2% negli Usa.
Brad Setser del Council on Foreign Relations mostra che le società statunitensi registrano profitti 7 volte superiori nei piccoli paradisi fiscali (Bermuda, Indie occidentali britanniche, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Singapore e Svizzera) rispetto a quelli ottenuti in 6 grandi economie (Cina, Francia, Germania, India, Italia e Giappone). Questo è ridicolo. ()
manifestazione a milano contro salvini e orban 20
In tutti questi casi, le rendite non vengono semplicemente sfruttate. Vengono create attraverso pressioni per creare scappatoie fiscali distorsive sleali e dirette contro le basilari normative che regolano fusioni, pratiche anti-concorrenziali, comportamenti finanziari scorretti e che tutelano l' ambiente e il mercato del lavoro. Le lobby delle grandi aziende sopraffanno gli interessi dei comuni cittadini. ()
Non da ultimo, poiché alcune economie occidentali sono diventate più latinoamericane nella distribuzione dei redditi, anche la loro politica è diventata più latinoamericana. Alcuni dei nuovi populisti occidentali riflettono su cambiamenti radicali, ma necessari, nelle politiche di concorrenza, leggi e fiscalità. Ma altri si affidano alle sirene xenofobe e continuano a promuovere un capitalismo truccato per favorire una piccola élite. Tutte queste attività potrebbero anche finire, intendiamoci, e sarebbe la morte stessa della democrazia liberale.
I membri della Business Roundtable e i loro pari hanno questioni importanti da porsi.
() Dovranno chiedersi come questa constatazione andrà a influire nel modo in cui sono abituati a fissare le loro retribuzioni e ad avvalersi (anzi, a creare attivamente) delle scappatoie fiscali e normative.
Dovranno, non da ultimo, riconsiderare le loro attività nell' arena pubblica. Cosa stanno facendo per garantire, per esempio, migliori leggi per il governo delle grandi imprese, un sistema fiscale equo ed efficace, una rete di sicurezza per chi viene colpito da forze economiche che trascendono il suo controllo, un ambiente locale e globale più sano e una democrazia capace di rispondere ai desideri dell' ampia maggioranza?
POPULISMO - SALVINI LE PEN . PETRY
Abbiamo bisogno di un' economia capitalistica dinamica, che dia a tutti la legittima convinzione di poter partecipare ai benefici. Quello che invece sembriamo avere di fronte adesso è sempre più spesso un capitalismo della rendita instabile, dove la concorrenza è indebolita e la crescita della produttività langue, la disuguaglianza è elevata. Il tutto, non a caso, in un contesto democratico sempre più degradato. () I nostri sistemi economici e politici devono cambiare il loro modo di funzionare, altrimenti soccomberanno.