Daniele Marini per “la Stampa”
REDDITO DI CITTADINANZA BY VAURO
Non è solo il Pil a subire la sindrome dello «zero-virgola». Anche i ceti che compongono la società denunciano una condizione simile: l' ascensore sociale resta bloccato per la maggior parte degli italiani. Come se l' effervescenza che aveva caratterizzato i decenni precedenti avesse perso la sua forza propulsiva e si fosse tramutata in vischiosità. L'esempio più emblematico della nostra staticità è fornito dalla demografia. L'ha ricordato recentemente l'Istat: la popolazione residente è in calo dal 2015. Siamo di fronte, rispetto agli ultimi 90 anni, a un declino demografico.
Come se due città pari a Firenze e Catania fossero state cancellate dalla cartina geografica. Una discesa, peraltro, totalmente imputabile agli autoctoni, perché senza l'apporto di nuovi cittadini stranieri saremmo diminuiti addirittura di circa 1 milione e 300mila abitanti. Se a questo aggiungiamo (fortunatamente) che viviamo di più, ma che una porzione sempre più consistente di giovani generazioni decide di spostarsi in altri Paesi per cercare migliori sorti, comprendiamo il motivo per cui anche la nostra società sperimenta lo «zero-virgola». Invecchiamo, facciamo meno figli e diminuiscono i giovani che popolano famiglie, scuole e imprese.
Al dato oggettivo, si sovrappone l'immaginario collettivo. Le difficoltà all'ingresso del mercato del lavoro per la fetta maggioritaria dei giovani, soprattutto di chi ha realizzato investimenti nei percorsi di formazione, alimentano l'idea che sia sempre più complicato prefigurare un futuro. Come dimostrano le ricerche, sono gli stessi adulti a ritenere che per i propri figli le condizioni socio-economiche saranno peggiori in futuro e che converrebbe loro tentare la fortuna all'estero. Dove la mobilità sociale è ritenuta più facile e le opportunità di trovare lavoro sono più veloci.
Eppure, siamo un Paese paradossale. L'Italia è la seconda potenza industriale in Europa, una parte del sistema produttivo ha performance positive e lamenta l'assenza di giovani che vorrebbe assumere. D'altro canto, la disoccupazione giovanile tocca picchi elevati, percorsi professionali che potrebbero garantire un'occupazione vengono disdegnati perché hanno uno status sociale poco appetibile, oltre che economicamente poco vantaggioso. Ed è proprio questo paradosso, che alimenta una mobilità frenata: dove mancano più che le informazioni, qualcuno che aiuti a orientarsi sul mercato del lavoro e a comprenderne le dinamiche.
Come sia modificata l'appartenenza ai diversi gruppi sociali da parte della popolazione e come e se funzioni l'ascensore sociale è l'oggetto dell' ultima rilevazione del Centro Studi di Community Group, col supporto di Intesa Sanpaolo, per La Stampa. L'esito complessivo mette in luce come la percezione di appartenenza a una classe sociale oggi sia sostanzialmente identica a quella di 5 anni fa.
In altri termini, le posizioni e le distanze sociali paiono rimanere fissate nel tempo. La maggioranza relativa degli italiani si ascrive al ceto medio (58,4% oggi, il 57,7% nel 2014). Una parte consistente si colloca nella classe medio-bassa (28,9%, 26,0% cinque anni fa), mentre il 12,8% si situa nella parte medio-alta della gerarchia sociale (era il 16,3% nel 2014). Nell' arco di un lustro le posizioni nella stratificazione dei ceti parrebbero immutate.
Tuttavia, se osserviamo le dinamiche da un punto di vista territoriale, possiamo apprezzare alcune differenziazioni. Per esempio, il Nord Est è l' area dove maggiore è la polarizzazione delle condizioni fra chi ha conosciuto un peggioramento della collocazione sociale e chi, per contro, un miglioramento, come se le dimensioni sociali si fossero divaricate più fortemente che altrove. Che non si tratti solo di percezioni, lo testimonia l'Istat con l' ultima ricerca sulla povertà in Italia nel 2018.
La povertà relativa interessa un totale di quasi 9 milioni di individui (15%). Il fenomeno però si aggrava nel Nord (da 5,9% al 6,6% del 2017), in particolare nel Nord Est (da 5,5% a 6,6%), con il Mezzogiorno che, invece, evidenzia una dinamica opposta (dal 24,7% al 22,1%). Confrontando le auto-collocazioni nei due periodi è possibile definire la mobilità sociale percepita degli italiani, ovvero come e se funziona l' ascensore sociale. L' esito ci consegna un Paese in gran parte bloccato.
Nel periodo esaminato (2014-19) per i tre quarti degli italiani (73,3%) complessivamente l' ascensore sociale rimane sempre allo stesso piano: scendono un po' di più i nordestini, rimane più stabile il Mezzogiorno, sale maggiormente chi sta al Nord. Ma è osservando le classi sociali che i sistemi di disuguaglianza si fanno notare. Praticamente nessuno fra chi si colloca nei ceti medio-bassi sperimenta un' ascesa sociale (3,3%). Per lo più rimangono bloccati (60,8%), ma uno su tre (35,9%) vede peggiorare le proprie condizioni. I quattro quinti (80,5%) del ceto medio rimangono bloccati, ma fra questi il 10,7% perde posizioni e una quota analoga (8,9%) ascende.
Per contro, il 69,2% di chi appartiene ai ceti medio-alti mantiene il livello e il 26,3% migliora ulteriormente le condizioni socio-economiche. Quindi, chi si colloca agli scalini più bassi della scala sociale, non ha molte possibilità di cambiare, tanto meno di salire. Anzi, per un terzo la probabilità di scendere ulteriormente è elevata. Dal canto suo, il ceto medio tende a conoscere al più una mobilità orizzontale, contenuto nel suo livello.
Chi non conosce un' erosione sono i ceti medio-alti, ai quali le opportunità di ascesa non mancano. Una ripresa economica lenta, all' insegna dello «zero-virgola», irrigidisce una mobilità sociale già bloccata da tempo, rendendo il Belpaese «vischioso». È l' immagine di un' Italia bipolare e immobile, dove il sentimento di frustrazione rischia di tramutarsi in risentimento.