CHE ANALOGIE VEDETE TRA BIDEN CHE DA’ DELL’ASSASSINO A PUTIN E DRAGHI CHE BOLLA ERDOGAN COME “DITTATORE”? - MASSIMO GIANNINI: “DRAGHI SEMBRA VOLER RIDARE VOCE ALL’ITALIA. A PARTIRE DAL MEDITERRANEO. PRIMA HA LANCIATO UN SEGNALE A PUTIN, FACENDO ARRESTARE UNA SPIA CHE VENDEVA SEGRETI A MOSCA. POI È VOLATO A TRIPOLI A SUPPORTARE LA PRESENZA DELL’ENI. INFINE IL COLPO A ERDOGAN. TRE ATTI PER DIMOSTRARE AI RUSSI E AI TURCHI CHE IN LIBIA, E NON SOLO, L’ITALIA C'E'. E FORSE C’È UNA SALDATURA PIÙ MARCATA CON L’AMERICA…”
Massimo Giannini per “la Stampa”
Mario Draghi che dà del “dittatore” a Erdogan. È la classica buccia di banana sulla quale scivola un leader arrivato al potere con le apparenti credenziali di un “impolitico”, o è invece la ruvida frustata di un primo ministro che insegue un più raffinato disegno diplomatico? Le sacre fonti di Palazzo Chigi invitano a non caricare di significati eccessivi l’accusa che il presidente italiano ha rivolto al suo omologo turco: era indignato per il trattamento scandalosamente sessista riservato alla presidente della Commissione europea in visita ufficiale ad Ankara, e questo è tutto. Può darsi che sia così.
Ma quello che è accaduto, depurato dalla possibile motivazione psicologica, sollecita comunque qualche riflessione politica. Intanto perché l’affondo del premier rappresenta in ogni caso uno strappo lessicale e istituzionale: nel galateo delle diplomazie nessun capo di Stato e di governo usa dire ciò che pensa in modo così netto e quasi brutale. E poi perché, a distanza di quattro giorni e nonostante le proteste ufficiali della Turchia, il premier non ha fatto nulla per troncare e sopire.
Dunque, cosa c’è dietro la sortita di Draghi? Suggerisco due chiavi di lettura. La prima chiave di lettura è fattuale: Erdogan è un dittatore perché viola sistematicamente i diritti del suo popolo e del popolo curdo e reprime le libertà fondamentali, di espressione e di genere. Comprensibile nella sostanza, irricevibile nella forma: come ha scritto giustamente Nathalie Tocci, Erdogan è un pessimo autocrate, maschilista e nazionalista, ma in Turchia non c’è una dittatura, il presidente è stato eletto dai cittadini, le tre maggiori città sono in mano a sindaci dell’opposizione e tra due anni si svolgeranno nuove elezioni. Draghi non può non saperlo.
MARIO DRAGHI - CONFERENZA STAMPA
Se nonostante questo ha evocato la “dittatura”, e poi non ha fatto nessuna marcia indietro, è verosimile che abbia voluto lanciare qualche messaggio. Agli amici e ai nemici. E qui siamo alla seconda chiave di lettura, che è invece geo-strategica. Con la sua intemerata, per quanto “tecnicamente” imprecisa, il premier riempie a modo suo l’inquietante vuoto di leadership dell’Unione in Europa, in Medioriente, nel mondo.
Un vuoto che deriva dal declino dell’asse franco-tedesco, con una Merkel in uscita e un Macron in attesa. Che precipita nella ritirata comunitaria dai grandi teatri globali del conflitto militare-industriale, dal Corno d’Africa alla Siria all’Iraq. Che si manifesta nel clamoroso fallimento della campagna vaccinale, con una copertura finora limitata al 14% dei cittadini europei, contro il 38% degli americani e il 58% dei britannici.
Che deflagra simbolicamente proprio con il “Sofà-gate” in terra turca, con un patetico Charles Michel che invece di cedere la poltrona alla collega Von der Leyen usa a vanvera il “protocollo” per giustificare la sua figuraccia, quasi più oscena di quella di Erdogan. Prendendo di petto il Sultano, Draghi sembra voler ridare voce all’Unione e tono all’Italia. A partire proprio dal Mediterraneo, che un tempo era Mare Nostrum e adesso è risucchiato nel gorgo dei nuovi imperialismi asiatici.
Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti). Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita.
Un avviso ai naviganti che vale anche per gli alleati europei: deboli, divisi e indecisi a tutto. E in questo caso, forse, c’è una saldatura più marcata con l’America post-trumpiana. L’Erdogan “dittatore” di Draghi fa il paio con il Putin “killer” di Biden. Un linguaggio comune, improprio ma inequivoco, per riallacciare le relazioni transatlantiche all’insegna della difesa delle democrazie occidentali e della denuncia esplicita dei regimi illiberali. Che se non sono dittature (come nel caso della Cina) sono per lo meno “democrature” (come nel caso della Turchia e della Russia).
E che al di là della “volontà di potenza” di chi le comanda, non sono né insensibili né impermeabili al “soft power” esercitato dal mondo libero. Erdogan è in palese difficoltà. Si avvicina alle elezioni del 2023 col fiato sempre più corto. È in crisi nera sull’economia: il Pil non cresce, l’inflazione vola al 15% e la cacciata del governatore della Banca centrale Naci Abgal ha prodotto una svalutazione della lira turca pari al 15% sul dollaro.
È in conflitto con interi pezzi della società: milioni di giovani non dimenticano le proteste di Piazza Taksim e centinaia di migliaia di donne scendono in piazza ogni fine settimana dopo la clamorosa decisione del governo di uscire dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere.
È in caduta verticale nei sondaggi: ad oggi il suo partito, l’Akp, non raggiungerebbe il 51% neanche con gli alleati del Movimento Nazionalista. Putin non se la passa tanto meglio. In patria cresce il disagio alimentato dal martirio a bassa intensità di Navalny nella colonia penale di Pokrov, dove il leader dei dissidenti si consuma in uno sciopero della fame che nutre le speranze malcelate del Cremlino su una sua fine rapida e magari non troppo dolorosa.
Fuori dai confini crescono le tensioni nel Donbass, dove lo Zar non ha ancora deciso quale strategia intraprendere, mentre il ministro degli esteri ucraino Dmitro Kuleba denuncia ufficialmente “l’aggressione armata della Federazione Russa” e il New York Times scrive “le intenzioni di Putin non sono chiare ma la manovra, decisa per mettere alla prova il nuovo presidente statunitense, potrebbe rapidamente degenerare”.
Queste autocrazie non sono superpotenze inespugnabili. E con queste autocrazie dobbiamo comunque “fare i conti”, come ha detto lo stesso Draghi. In senso diplomatico, ed anche in senso economico: perché dove passano le merci non passano gli eserciti, perché in Turchia lavorano 1.500 aziende italiane e perché con Ankara abbiamo un interscambio che vale 19 miliardi. Ma queste autocrazie vanno affrontate a viso aperto.
Perché, come scrive Anne Applebaum nel suo “Tramonto della democrazia”, è anche possibile che la nostra civiltà stia già dirigendosi verso l’anarchia o la tirannia, che il XXI secolo vedrà arrivare al potere una nuova generazione di “chierici”, fautori di idee autoritarie, e che la paura del Covid genererà anche la paura della libertà. Ma dipende solo da noi far sì che la pandemia ispiri invece un nuovo senso di solidarietà, e che la realtà del dolore e della morte insegni alle opinioni pubbliche a diffidare di bugiardi, populisti, imbonitori. E persino dittatori, veri o falsi che siano.