Tommaso Labate per corriere.it
Il selciato su cui piovvero le monetine che lo consegnarono a una tragica leggenda è deserto. E l’ingresso sbarrato, come se l’edificio fosse abbandonato. La dicitura dei motori di ricerca su Internet è «temporaneamente chiuso», l’ultima recensione su Tripadvisor risale al febbraio scorso.
E il titolare Roberto Vannoni, che Bettino Craxi all’epoca chiamava affettuosamente «Robertino», dice «la nostra clientela è soprattutto americana. Siamo chiusi da marzo a causa del Covid e riapriremo a settembre, o quantomeno ci speriamo. Dipenderà dall’economia, dal resto...». E lascia la frase così, sospesa.
1993. bettino craxi raphael con luca josi
Sul palcoscenico dell’Hotel Raphaël di Roma, a pochissimi passi da Piazza Navona, è calato il sipario. Consegnato alla storia nostrana come la residenza capitolina di Bettino Craxi, che là davanti — 30 aprile 1993, in piena Mani Pulite — fu oggetto del lancio di monetine da parte di una folla inferocita, l’albergo è stato il teatro di una storia lunga più di mezzo secolo.
Che parte da molto prima che il leader socialista finisse per abitare i quarantacinque metri quadri dell’attico («La gente pensava a chissà che, ma erano giusto una camera e un cesso», è la sintesi del figlio Bobo) e della terrazza, che negli anni a venire sono stati trasformati in un ristorante. Un ristorante che è stato attivo fino a pochi mesi fa, meta dei clienti dell’albergo e non solo.
La vetrata che lo protegge, ma questo nessuno può immaginarlo, ha una blindatura a prova di arma da fuoco. Ed è ancora la stessa fatta montare dalla Presidenza del Consiglio dei ministri nell’estate del 1983 per proteggere Craxi, appena insediatosi a Palazzo Chigi.
craxi le monetine all hotel raphael
Undici anni prima, al pianoforte del Raphaël, era nato uno dei capolavori più popolari di bossa nova, Aguas de março, canzone firmata da Antonio Carlos Jobim. «L’albergo era il ritrovo delle celebrità brasiliane, che spesso dormivano là per la vicinanza con la loro ambasciata», racconta Bobo Craxi, venuto a conoscenza dell’aneddoto dai diretti interessati. Jobin e Chico Buarque, in un giorno di pioggia di un marzo dei primi anni Settanta, tornano alle loro stanze del Raphaël dopo una serata passata in giro per Roma a fare bisboccia. Con loro c’è anche Vinícius de Moraes. I fumi dell’alcol, il sonno che non arriva, il pianoforte dell’albergo, l’improvvisazione su note che – tempo qualche anno – avrebbero cominciato a fare il giro del pianeta.
La nascita del Raphaël sembra uno scherzo del destino, a guardarla con gli occhi del «dopo». La proprietà dell’albergo che avrebbe accompagnato l’epopea del leader socialista più odiato dai comunisti, l’uomo del duello con Enrico Berlinguer e del referendum sulla scala mobile, aveva radici ultra-comuniste.
Nel 1945 Spartaco Vannoni, che avrebbe lasciato l’hotel al figlio Roberto, è l’assistente di Eugenio Reale, il braccio destro di Palmiro Togliatti che anni dopo avrebbe abiurato il comunismo. Lo segue a Varsavia, dove Reale alla fine della guerra diventa ambasciatore italiano in Polonia. Al ritorno in Italia, Vannoni è l’archetipo del finanziere rosso, uno di quelli che vede da vicino i rubli che viaggiano da Mosca a Roma. Il palazzo in cui fonderà il Raphaël negli anni Cinquanta lo prende in affitto da un ente e lo riempie di pezzi d’arte, tra cui anche un Picasso.
L’albergo, negli anni a venire, avrebbe ospitato il drammaturgo Arthur Miller e Simone de Beauvoir, presenze fisse durante i loro viaggi in Italia. Poi, all’inizio degli anni Settanta, arrivano i socialisti, a cominciare da Francesco De Martino. Dormono al Raphaël Tonino Caldoro, papà di Stefano, e il calabrese Nino Neri, che diventa ufficiale di collegamento tra Craxi e Giacomo Mancini.
«Neri alle volte si metteva a un tavolo vicino a mio papà per origliare. E poi andava a spifferare qualcosa ai giornalisti a Montecitorio», sussurra Bobo Craxi. La presenza di Bettino al Raphaël, già prima dell’elezione a segretario del Psi, è stabile.
Prima dorme in una stanza poi prende quella «camera e cesso più terrazzo» che lascerà soltanto dopo la fuga ad Hammamet nel 1994. Non vi tornerà mai più. «Le sue cose andai a prenderle io, nel 1995. Credo che mio papà avesse avvertito il proprietario che la stanza poteva anche liberarla», ricorda Bobo. In Tunisia Craxi porta con sé un «pezzo» in carne e ossa dell’albergo.
E cioè il centralinista-receptionist Marcello Giovanbattista, che «protegge» le telefonate in entrata e in uscita dell’illustre ospite negli anni al Raphaël e finisce per diventarne una specie di assistente personale, che lo seguirà sull’altra sponda del Mediterraneo. Storie e fantasmi di un’epoca che non c’è più. Al contrario delle note di Aguas de março, che ancora girano il mondo. «É o pau, é a pedra, é o fim do caminho. È legno, è pietra, è la fine della strada». Profetico, quasi.
hotel raphael hotel raphael hotel raphael 1 hotel raphael
giacomo mancini craxi BETTINO CRAXI simone de beauvoir e jean paul sartre martelli craxi craxi bettino craxi luca josi fiori e un libro sulla tomba di craxi ad hammamet bettino craxi hammamet craxi hammamet la tomba di craxi ad hammamet bettino e stefania craxi