LE MEMORIE DI ALBERTINA GASPARONI, LA SEGRETARIA DEI PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA: "LEONE VENNE CALUNNIATO, PERTINI NON AVEVA UN CARATTERE FACILE. UNA VOLTA MI AGGREDÌ E MI CACCIÒ MALAMENTE DAL SUO UFFICIO. POI MI CHIESE SCUSA. COSSIGA? UNA GRANDE INTELLIGENZA DEVIATA. NEI VIAGGI RAGGIUNGEVA I GIORNALISTI NELLE RETROVIE DELL’AEREO E COMINCIAVA AD ESTERNARE SU TUTTO E TUTTI – SCALFARO? UN GENTILUOMO D’ALTRI TEMPI - EBBI PIÙ RAPPORTI CON LA SIGNORA FRANCA, EFFERVESCENTE, DIRETTA: UNA VOLTA ALLE SCUDERIE DISSE ALL’AMBASCIATORE FRANCESE CHE LA MOSTRA NON LE ERA PIACIUTA PER NIENTE” - QUELLA VOLTA CHE IL SEGRETARIO GENERALE GIFUNI CI RIMANDÒ INDIETRO UNA LETTERA CON L’ANNOTAZIONE: “FATE SCHIFO"...
Estratto dell'articolo di Concetto Vecchio per repubblica.it
Albertina Gasparoni, 78 anni, lei è stata la segretaria di Sandro Pertini?
“Sì, per tutto il settennato, condividevo la responsabilità con altri due colleghi”.
Non aveva un carattere facile.
“No, ma sapeva chiedere scusa. Un giorno mi chiese di chiamargli Eugenio Scalfari, ma in realtà intendeva Oscar Luigi Scalfaro. Composi il numero del direttore di Repubblica, e Pertini partì a razzo con tutta una serie di considerazioni…”
Oddio.
“Dopo un po’ si accorse dell’equivoco. Davvero mi aveva detto di chiamargli Scalfari, ma non si capacitava. Andò su tutte le furie, mi aggredì e mi cacciò malamente dal suo ufficio. Tornai nella mia stanza e scoppiai a piangere”.
E il presidente?
“Verso sera mi convocò nel suo ufficio: “Sono veramente amareggiato”, ripeteva. Ed io: “Ma non è successo niente, signor presidente”. E lui: “Non è vero che non è successo niente, sono stato un villano e non posso andare a casa senza averle chiesto scusa e aver ottenuto il suo perdono”.
Ricorda il primo incontro?
“Ho due flash. Il primo è quando morì Paolo VI, il 6 agosto 1978. Pertini annullò all’ultimo momento la vacanza in val Gardena. Erano già tutti in ferie. Lo trovai turbato. Venivamo dal sequestro Moro, c’era un’emergenza al giorno”.
E il secondo?
“Nel settembre del 1978 mi volle al suo compleanno. Eravamo in sei in un ristorante nei pressi di Fontana di Trevi: me lo ritrovai di fronte, lui parlò per tutta la serata, il fascismo, il confino, la grande politica. Quando ci alzammo mi disse: “Signora, ma lei non ha detto una sola parola”. “Ma io devo soltanto ascoltare”, gli ho risposto”.
[...]
Quanti anni è stata al Quirinale?
“Dal 1972, c’era Giovanni Leone, alla fine del 2003, con Ciampi. Ma prima ancora avevo lavorato con Moro”.
Aldo Moro?
“Sì, alla Farnesina. Era ministro degli Esteri. Io ero la segretaria del suo capo di gabinetto, l’ambasciatore Luigi Cottafavi”.
Com’era Moro umanamente?
“Discreto, silenzioso”.
Ha un ricordo particolare?
“Frequentava lo stesso cinema in cui andavamo io e mio marito, l’Arlecchino, in via Flaminia. Tirava dalla tasca della giacca una lampadina con cui illuminava le carte che aveva con sé”. [...]
“Nel buio della sala sbrigava la corrispondenza”.
[....]
albertina gasparoni sandro pertini 33
Ma com’era arrivata alla Farnesina?
“A 24 anni, per concorso. Era il 1969. Non avevo nessun diploma, ma sapevo l’inglese, il tedesco, il francese. Feci un buon esame”.
Non era diplomata?
“No, il mio patrigno non mi aveva fatto proseguire gli studi”.
E perché?
“Era un modo di pensare molto comune all’epoca: come donna era meglio andare subito a lavorare”.
Era difficile per una giovane donna lavorare nell’ambito politico?
“Ho dovuto lottare non poco contro la mentalità maschilista”.
Mi fa un esempio?
“Molte volte ho visto dei malumori maschili quando ricevevo incarichi superiori al mio inquadramento”.
[...] Come arriva al Quirinale?
“Cottafavi venne nominato ambasciatore a Teheran, e nel congedarsi passò a salutare Leone, con cui aveva collaborato alla Camera. Mi segnalò”.
Segretaria?
“No, i primi due anni li passai all’ufficio stampa, poi entrai nella segreteria particolare”.
Com’era Leone?
“Ti metteva a tuo agio. Io entravo sempre con un certo timore nella sua stanza e lui la prendeva alla larga per stemperare la tensione”.
La presidenza Leone finì malissimo dopo l’inchiesta di Camilla Cederna.
“Non solo per quello, lì ci fu anche un gioco politico. Leone venne calunniato”.
Cosa ricorda?
“Una sera stavamo rivedendo un’intervista a Panorama, quando in fretta e furia dovemmo scrivere il discorso agli italiani con cui annunciava le sue dimissioni”.
Pertini è stato il suo presidente?
“Decisamente. Era avvolgente. Un giorno arrivò un mazzo di rose rosse dai compagni della Liguria, glieli portai, lui mi abbracciò, convinto che glieli avessi regalati io. “Ma che pensiero!” Non ebbi il coraggio di dirgli la verità. Uscita dalla stanza ne ordinai un mazzo, a mie spese, e gliele riportai a nome dei compagni liguri”.
Come spiega la popolarità di Pertini?
“Era autentico. La gente lo sentiva vicino. Dopo il terremoto in Irpinia disse “chiamatemi se avete bisogno”. Fummo travolti dalle telefonate, costretti a mettere una seconda linea. Poi il Mundial spagnolo lo consacrò”.
Non è stato un presidente populista?
“Quel Paese richiedeva quel tipo di messaggi. C’erano il terrorismo, le stragi, gli scandali, i sequestri, a lungo tememmo che le Brigate Rosse avrebbero colpito anche lui…”
[...]
Come andò con Cossiga?
“Non ci fu empatia. Mi ritrovai presto ai margini. Preferii andarmene in piedi che rimanere in ginocchio”.
Andare dove?
“Al cerimoniale”.
Beh, al Quirinale è un posto importante.
“Cominciai a viaggiare col presidente”.
La personalità di Cossiga è un grande mistero.
“Una grande intelligenza deviata. Ricordo che nei viaggi raggiungeva i giornalisti nelle retrovie dell’aereo e cominciava ad esternare su tutto e tutti…”.
I giornalisti viaggiavano al seguito?
“Non è più così?”
Non più da anni.
“Noi ci allarmavamo ogni volta che il presidente si alzava”.
Poi arrivò Scalfaro.
“Un gentiluomo d’altri tempi. Sulla scaletta dell’aereo ci teneva sempre a darmi la precedenza”.
Ciampi?
“Garbato, gentile, ma io ebbi più rapporti con la signora Franca, effervescente, diretta, senza peli sulla lingua : una volta alle Scuderie disse all’ambasciatore francese che la mostra non le era piaciuta per niente”.
Perché lasciò?
“Volevo occuparmi di mia madre malata. E forse non era più il mio tempo. Gifuni già una volta mi aveva convinta a restare”.
Il mitico segretario generale.
“Il classico meridionale di cuore. Tuoni e fulmini quando le cose non andavano bene, ma anche riconoscimenti affettuosi se si faceva bene un lavoro”.
Com’era lavorare con lui?
“Una volta fui in disaccordo col mio caposervizio sulla formulazione di una lettera, io ritenevo che occorresse più diplomazia. La mandammo a Gifuni e lui ce la rimandò indietro con l’annotazione: “Fate schifo’”.
Ora al Quirinale c’è Mattarella.
“Ogni volta che lo vediamo in tv con mio marito ci diciamo: “Meno male che c’è lui!” Sta tenendo insieme i brandelli politici con raro equilibrio”.
Avrebbe lavorato volentieri con Mattarella?
“Ci sono presidenti che ho rispettato e altri che ho amato. Mattarella l’avrei amato”.