SONO 30 ANNI CHE NANCY PELOSI ROMPE LE PALLE ALLA CINA – LA VISITA A TAIWAN È SOLO L'ULTIMO CAPITOLO DEL LUNGO E CONFLITTUALE RAPPORTO DELLA SPEAKER DELLA CAMERA USA CON PECHINO – NEL 1991 QUANDO, DA DEPUTATA IN ASCESA, IN PIAZZA TIENANMEN SROTOLO' UNO STRISCIONE IN OMAGGIO AGLI STUDENTI MASSACRATI DUE ANNI PRIMA. POI HA RICEVUTO IL DALAI LAMA, NONOSTANTE LE OBIEZIONI CINESI, E DA ULTIMO HA CONDANNATO LE REPRESSIONI A HONG KONG...
Marco Valsania per “Il Sole 24 Ore”
nancy pelosi a piazza tienanmen nel 1991
Nel 1991, da deputata in ascesa, aveva cominciato srotolando a Tienanmen uno striscione in omaggio agli studenti massacrati due anni prima. Da allora non si è fermata. Ha ricevuto il Dalai Lama, nonostante le obiezioni di Pechino, e nel 2015 ha strappato alle autorità cinesi anche una rara visita in Tibet.
Nancy Pelosi ha una lunga e conflittuale storia di rapporti con la Cina. Sulla quale, a 82 anni, forse all’apice e prossima al tramonto della carriera, non ha ancora scritto l’ultima parola: lo Speaker della Camera si è levata, una volta di più sull’onda della sua controversa visita a Taiwan, a leader d’uno schieramento trasversale, di democratici e repubblicani, che invoca risposte più determinate e chiare a Pechino.
nancy pelosi a piazza tienanmen nel 1991
Nel farlo, affermano i suoi collaboratori e alleati, Pelosi è rimasta fedele anzitutto a se stessa e al suo passato. Ha ignorato il monito di Pechino, di dure risposte con manovre militari nei pressi dell’isola e gravi danni alle relazioni sino-americane. E lasciato cadere anche l’informale suggerimento della Casa Bianca a rinunciare in un momento delicato a volare a Taipei, limitandosi a toccare altre mete asiatiche: Joe Biden ha persino menzionato obiezioni delle forze armate davanti a pericoli di escalation della crisi.
Né sono valse le recensioni preoccupate di analisti: l’opinionista del New York Times Thomas Friedman l’ha definita irresponsabile. Tanto più quando Washington è impegnata a separare Pechino da Mosca sulla guerra in Ucraina. Momento poco opportuno per avanzare la causa di democrazia e autonomia per Taiwan.
Pelosi ha tuttavia incassato un eccezionale sostegno dai parlamentari conservatori, che abitualmente le denunciano quale portabandiera progressista con radici nella liberal San Francisco. Qualche strategist ha sottolineato come, una volta filtrati pubblicamente i piani del viaggio asiatico, non poteva sottrarsi all’atterraggio a Taipei, pena premiare l’aggressività della reazione del governo di Xi Jinping. Sarebbe stato un atto di debolezza.
Lei rappresenta, oltretutto, una delle più alte cariche istituzionali statunitensi: per la successione al Presidente è solo alle spalle della vice-Presidente Kamala Harris. Non basta. Tra think tank e media, quali la rivista The Economist, è stato evidenziato un problema assai più di fondo per l’amministrazione Biden: i rischi sono stati moltiplicati dalla confusione alla Casa Bianca sulla strategia cinese.
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Biden oscilla tra conferme della tradizionale ambiguità della politica della One China, che non riconosce Taiwan come indipendente, e promesse di proteggere l’isola da aggressioni di Pechino che vanno al di là di esistenti accordi.
Quel che è certo è che la decisione di Pelosi di recarsi a Taiwan non ha sorpreso. Ancor prima di arrivare ha pubblicato sul Washington Post un messaggio ripetuto durante la visita. Ha definito «terribile» l’atteggiamento di Pechino sui diritti umani e il «disprezzo per il rispetto della legge mentre Xi Jinping rafforza il suo potere». Ancora: «La solidarietà dell’America a 23 milioni di taiwanesi è più importante che mai mentre il mondo affronta la scelta tra autocrazie e democrazie».
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Parole coerenti con trent’anni spesi ai vertici della politica Usa e che tra gli episodi distintivi contano proprio le prese di posizione su Pechino, sensibilizzate sia dall’influente comunità asiatica nella sua California che dalla sua leadership nelle commissioni parlamentari di intelligence dedite agli avversari strategici. Nota, anche sul fronte domestico, per la combattività, in politica estera non è stata da meno.
È rimasto negli annali il suo striscione a piazza Tienanmen dedicato ai «morti per la democrazia in Cina», con intervento della polizia e incidente diplomatico. In anni più recenti ha promosso leggi contro la repressione a Hong Kong e della minoranza degli Uiguri. E ha polemizzato con presidenti repubblicani e democratici, da George Bush a Bill Clinton, che a suo dire privilegiavano i rapporti economici ai diritti umani.
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L’anno scorso, all’anniversario di Tienanmen, ha ribadito che «se non alziamo la voce sui diritti umani in Cina per ragioni economiche, perdiamo l’autorità morale di parlarne ovunque nel mondo». Un’autorità alla quale Pelosi, guardando al proprio lascito politico, non vuole rinunciare adesso.
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