Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera”
Se devo raccontare la prima cosa che mi viene in mente di Giampiero è il suo sorriso, quella lunga risata grassa, un po' impostata da eroe televisivo, ma sincera, contagiosa. Era un giornalista da commedia dell'arte, improvvisava, il canovaccio era lui. E sapeva diventare subito un pezzo del mondo che doveva raccontare. Lui c'era sempre, nella calma di uno studio televisivo, nella fretta e nella lotta dei grandi spogliatoi di tutto il mondo, dove era necessario guadagnarsi il posto di battaglia migliore. E quando intervistava in diretta sembrava avesse vinto lui, non l'altro.
Lo spettacolo per noi ragazzi di giornalismo era capire come avesse fatto Galeazzi a trovarsi davanti a Maradona il giorno dello scudetto, a bere champagne con lui mentre noi eravamo ancora oltre la porta ad ascoltare una festa di altri. Così avevo imparato: quando lo vedevo muoversi in uno stadio, in un'Olimpiade, quando c'era profumo di impresa e lui cominciava a sgranchire la sua grande mole, io gli andavo dietro. Passavo i suoi stop quasi coperto dalle sue spalle.
Lui era Bisteccone e io Sconcertino. «Vieni come me» mi diceva. Non c'è mai stata amicizia, c'era simpatia, il suo piacere di indicarmi il mestiere, di mostrarmi quello di cui era capace. Non ho mai capito realmente chi fosse, la sua vita raccontata era piene di cose straordinarie e contraddittorie. Così grande e grosso, così goloso, così popolare e romano, eppure laureato in Economia statistica, materia dottorale, profonda, scientifica, mentre Giampiero sembrava tutto fuorché uno scienziato. Era un uomo di tutti, felice di avere avuto tanto e poter restituire, felice del suo lavoro di corsa, elementare come essere davanti a un albero e farlo parlare.
Eppoi aveva qualcosa nei modi di porsi che avevo visto solo in Gianni Minà. Piaceva ai suoi interlocutori, ne diventava la confidenza. Era facile parlare con Giampiero perché non tradiva, era rimasto atleta, sapeva cosa cogliere e cosa dimenticare. I suoi soggetti gli rimanevano fedeli come Maradona, Clay a Minà. Gianni più selettivo, più colto, più da film che da intervista rubata in uno spogliatoio, ma con lo stesso principio totale. Non credo che Giampiero sia diventato un maestro. È stato troppo unico per lasciare lezioni. Appariva improvvisamente dove lo sport contava, era come l'invitato d'onore a un matrimonio. Se non c'era lui, non era un grande matrimonio. Non sono cose che puoi insegnare. Io infatti mi limitavo a seguire il suo corpaccione in movimento e a invidiarlo. Faceva domande normali e tu sentivi che aveva un grande senso giornalistico anche quando diceva «Come stai? Cosa si prova?».
Faceva paesaggio, atmosfera, era lui che dava colore. Le avessi fatte io col taccuino in mano sarebbero state patetiche. Lui con la sua altezza, il microfono, gli abitoni chiari e stirati, illuminava la scena e la puliva da qualunque banalità. E i campioni erano contenti di averlo intorno, si sentivano gratificati. Impensabile oggi. A volte mi sembrava eccedesse. Era diventato presenzialista, faceva forse troppe parti, mentre era soprattutto un giornalista sportivo, già lieve in partenza, e per me un mestiere che deve rimanere sempre un po' quello del monaco.
Ma amava piacere alla gente, credo abbia vissuto la vita e la professione come un lunghissimo banchetto, una tavola dove ci si prende in giro e si ricorda, non si creano problemi. Ed è arrivato ad essere tante cose diverse, forse il primo vero giornalista tv nazionalpopolare. L'estate ci ritrovavamo in un albergo del Circeo. In costume Giampiero sembrava un monumento di Botero.
E quando si alzava dalla sdraio per tuffarsi in piscina, la gente si raccoglieva ai bordi come al risveglio di un vecchio amico che sorprenderà. Prendeva una breve rincorsa poi saltava. E una montagna d'acqua saliva da ogni parte. Poi metteva la testa fuori a e aspettava l'applauso educato della gente. Anche quella volta aveva fatto il suo dovere di istrione.
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