Mattia Feltri per "la Stampa"
Della santissima trinità del tennis contemporaneo, Rafael Nadal è il mio preferito, Roger Federer ha vette di sublime sconosciute agli altri due, ma penso il più forte sia Novak Djokovic. Parlo di santissima trinità perché ormai nessuno di loro vive di grandezza propria, ma per imporsi sulla grandezza altrui in un'ascesa all'epica, e lo testimonia la contabilità: insieme hanno vinto sessantuno tornei dello Slam. Per intenderci, i tre giganti di quand'ero bambino - Bjorn Borg, John McEnroe e Jimmy Connors - ne assommano ventisei.
L'irreale equilibrio di venti Slam a testa è stato incrinato lo scorso mese in Australia da Nadal, che ha vinto il ventunesimo approfittando anche dell'assenza cronica del quarantenne Federer e di Djokovic, espulso perché non vaccinato. Nei giorni scorsi si era detto che per sopravanzare Nadal e certificarsi il migliore di sempre, Djokovic avrebbe infine ceduto al vaccino ma, in un'intervista alla Bbc, ha invece confermato di essere pronto a pagare qualsiasi prezzo, e cioè a saltare ogni torneo, compresi quelli dello Slam, in cui la vaccinazione sia obbligatoria.
Non ha parlato di rettiliani, di dittatura nazisanitaria, non ha negato il Covid, ha parlato soltanto dell'armonia in cui vive col suo corpo e della sua libertà di scelta. Non credo abbia ragione, ma la mitezza delle parole e l'enormità che è disposto a sacrificare - le solide chance di trionfare nella più lunga e inebriante battaglia della storia dello sport - impongono di rivedere il pigro ritratto collettivo che abbiamo fatto dei renitenti al vaccino, anche soltanto per guardare in faccia il talebano che è in noi.