Riccardo Signori per “il Giornale”
In quei giorni, luglio 1982, quelli della finale mondiale a Madrid, Bruno Pizzul stava prendendo aerei al contrario. Gli italiani sciamavano verso Madrid. «Ed io facevo il percorso contrario.
Non che ne fossi felice, però troppa gente era salita sul carro dell'Italia e a Madrid non c'erano più biglietti: destinati ad amici, amiche, parenti, di tutto un po'. Mi dicono: la vedi in albergo. Ma scherziamo? Stavo rientrando da Alicante dopo la finale per il terzo posto. E arrivato all'aeroporto di Milano c'era chi mi fermava e diceva: dove va? Dall'altra parte per l'imbarco...».
Il signore delle telecronache racconta il suo mondiale con il consueto sorriso nell'animo.
«Non ho vissuto direttamente il nostro mondiale, andavo da Elche a Siviglia, da Malaga a Barcellona. Ma quando sono andato a Vigo per salutare Bearzot e gli altri ho capito che avevano scelto giusto: la Spagna era bollente, 35 gradi come niente. Invece a Vigo di notte dormivano col fresco e con la copertina. È stato uno dei segreti del successo».
Ovvero?
«La temperatura non ha cotto i giocatori. Dal girone di Vigo uscirono due squadre, Italia e Polonia, che sembravano le più scassate di tutte. Invece arrivarono in semifinale. Credo che non si fossero incrociate, si sarebbero trovate in finale. Avevano bravi calciatori, ma tutti si erano evitati 15-20 giorni di caldo torrido in giro per la Spagna».
Com' era l'atmosfera spagnola?
«All'inizio andavo nei ristoranti o altrove, mi vedevano italiano e mi prendevano un po' per i fondelli: dicevano nazionale che gioca male fra polemiche, silenzio stampa.
Nemmeno mi facevano mangiar bene. Poi la considerazione ha preso a salire, mi sono sentito blandito, finalmente mi facevano mangiare le cose giuste. E il tifo cominciava a puntare sull'Italia».
Come seguivi l'Italia?
«Da lontano, ma in modo divertente. Ero amico di Memo Trevisan, un collaboratore di Bearzot, e lui mi dava le dritte. Ma quando capitava dalle mie parti, per vedere possibili avversarie, non guardava l'Italia. Mi diceva: guarda tu, ho il batticuore, starei male. Avevamo stabilito un codice: io vedevo la partita, poi andavo sulla spiaggia e lui da lontano mi veniva incontro e cercava di interpretare lo sguardo: rassicurante o meno. Così evitava il coccolone. In cambio mi raccontava quel che dicevano Zoff e Bearzot nelle segrete stanze».
Certo, voi tra friulani fate gruppo...
«Quando ci fu il silenzio stampa, la Rai mi chiese di andare a Vigo, visto che ero amico di Zoff e Bearzot. Magari ti dicono qualcosa... Mi rifiutai: sapevo che sarebbero nati problemi con i colleghi. Dissi: se noi parliamo in friulano questi non capiscono. Eppoi mi chiedono. Sarebbe stato un casino».
A quale livello metti quell'Italia?
«Una delle più forti di sempre. Bastava valutare i singoli giocatori. Bearzot ha creato un blocco unico contro tutti. Un po' la stessa politica di Mourinho».
E i giocatori?
«Molti hanno toccato il momento magico: Paolo Rossi massacrato prima di cominciare per tutte le sue vicende. Poi, appena toccava palla, la buttava dentro. Nessun paragone con quelli di oggi: abbiamo quello che ci meritiamo. L'uomo decisivo fu Bruno Conti che martellava gli avversari sule corsie esterne».
«Il Giornale» ha indetto una petizione per intitolare una strada, una tribuna, qualcosa a Silvio Gazzaniga, scultore che 50 anni fa creò il modello della coppa. Sei d'accordo?
«D'accordissimo, è un cimelio con una storia. È diventata iconica».
Nando Martellini, chiuse col famoso urlo Campioni del mondo!. Come si era preparato?
«Nando non era un grande appassionato di calcio. Era un gentleman, con me amabile. Attento alla preparazione, alla dizione, ma non sbavava per il pallone. Quel giorno era tranquillo, sentiva un po' di pizzicorino. Poi ci fu il coinvolgimento emotivo e l'urlo lo legò all'impresa».
Altre telecronache rispetto a oggi?
«Raccontavamo cose strettamente legate alla partita. Non avevamo tutte le informazioni di adesso. Ma ora si tende a strafare. E anziché parlare di Rivera, racconti dello zio di Rivera. Francamente... ne farei a meno».
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