Francesco Persili per Dagospia
“Una abbronzata allucinazione di fluidità e giovinezza”, secondo Martin Amis. Una “dea guerriera”, per Gianni Clerici. Gabriela Sabatini, che oggi compie 50 anni, resta conficcata nell’immaginario come sogno erotico e sex symbol del tennis ’80-’90. “Se attacchi, mi attizzi”, i nostri tennis lovers al Foro andavano dritti al punto. Era la preferita dai romani, a lei erano dedicati striscioni grandi come lenzuola a sei piazze, ricorda Adriano Panatta nel suo libro ‘Il tennis è musica’. Ce n’erano di tutti i tipi: in stile disneyano (“Roma uguale Gabyland”), in stile esplicito, in stile veleggiante (“Il Moro ci piace ma la Mora anche di più”), in stile poetico (“Gaby nei cuor avanti con ardor”), in stile Mario Brega (“Gabriela sei uno zucchero”). Il Centrale grazie a lei diventava “un’alcova all’aria aperta”.
Sguardi d’invidia accompagnavano Eugenio Rossi, il suo coach per una stagione al quale attribuirono un flirt con l’argentina dalla camminata alla John Wayne e le spalle “da indossatore di Armani”. Per lo Scriba Clerici “soltanto un’atroce battuta, invano modificata con risultati sempre più deludenti, le impedì un accesso tra le Immortali d’altra parte meritato, per il resto del suo gioco e del suo fascino”. A Roma vinse quattro volte e fece strage di cuori. “Mi piaceva tantissimo”, ricordò qualche anno fa Max Giusti a Dagospia – “io in quegli anni ero anche in piena pre-adolescenza, capirai… Più che come bomba erotica la vedevo come la fidanzatina del liceo». Anche con i laghetti di sudore sotto le ascelle sprigionava sensualità e desiderio tanto che l’intellettuale australiano Clive James non si trattenne: “Portatemi il sudore di Gabriela Sabatini…”
GABRIELA SABATINI
Da ubitennis.com
Non porta più i codini come quando cominciò a palleggiare a Núñez, impugnando come poteva una racchetta Condor fatta d’acciaio, troppo pesante per una bimba che non aveva ancora compiuto sette anni. Non ha nemmeno l’innocenza che sfoggiava nel giugno del 1984, quando fece innamorare tutto il Bois de Boulogne, conquistò il Roland Garros junior e si mordeva le labbra, timida, durante la premiazione.
Però conserva la stessa essenza, la stessa freschezza e lo stesso calore. Questo sabato Gabriela Sabatini compirà 50 anni. Niente le fa perdere la simpatia. È stata una grande sportiva in un’epoca d’oro. Contemporanea di vere leggende, in carne e ossa, che sembravano uscite da un film di fantascienza. Sensibile e senza malizia, brillò in un circuito caricato di aspettative, che nascondeva anche parti di egoismo e arroganza. Sul campo da tennis, mentre riusciva a “giocare”, nel senso più romantico della parola, Gaby si trasformava e lasciava scorrere la sua poesia.
Gelosa della sua intimità e della riservatezza della sua famiglia, Sabatini si è mantenuta sempre lontana dai conflitti. È stata una grande attrazione pubblicitaria […]: seduceva per la sua bellezza, ma anche per il suo modo di essere, per la sua naturalezza.
Lo ha scritto anche Monica Seles nella propria biografia, From Fear to Victory (Dalla paura alla vittoria), facendo menzione all’atteggiamento della tennista argentina dopo che il tedesco Günter Parche l’aveva accoltellata ad Amburgo. Le migliori tenniste della WTA decisero di non congelare la classifica della jugoslava, poi naturalizzata statunitense, che era numero 1. Le rivale le voltarono le spalle con il voto, tranne una che si astenne.
“Gaby fu l’unica giocatrice che mi sostenne dopo l’accoltellamento. Ha pensato come una persona, non con la testa alla classificia, non ha pensato agli sponsor o agli affari. È una persona diversa dal resto delle giocatrici che erano nel tour”, ha spiegato Seles. Bisogna andare a cercare anche lì per capire perché Gabriela è tanto amata.
Vincitrice di 37 titoli e numero 3 del mondo nel 1989. Però insofferente alla fama e all’esposizione mediatica. Nel 2013, in una chiacchierata con La Nación, confessò: “Quando ero piccola e pensavo che vincendo un torneo dovevo parlare, molte volte perdevo in semifinale per non farlo“. Da quando si è ritirata, nel 1996, a soli 26 anni, non ha smesso di collaborare, in silenzio, senza vantarsi. Lo ha fatto con molte tenniste giovani; la fa come ambasciatrice di una fondazione che lotta contro il cancro al seno. Lo fa perché ci crede. E si lascia coinvolgere. Vive così da quando si è liberata del tennis professionistico prima che potesse cominciare a odiarlo.
Oggi concilia i suoi doveri da donna d’affari con una vita sana: pratica sport ogni giorno (adora la bicicletta) e mangia con attenzione (molta frutta e verdura). Si permette qualche sgarro, ovviamente: gelato, pasta, cioccolata calda o cappuccino, a seconda della stagione. A Zurigo, una delle tre città in cui vive durante l’anno (insieme a Buenos Aires e Miami) ha seguito corsi per imparare qualcosa di più sull’origine e la preparazione del caffè. Giura che potrebbe rimanere per ore seduta in un caffè.
Attualmente è a Miami, anche se si sarebbe dovuta trovare in Svizzera per preparare i festeggiamenti per il suo compleanno. Lo stava progettando con amici e familiari, ma il coronavirus l’ha sorpresa in Florida.
“Sono qui, cercando di far passare queste giornate così strane che stiamo vivendo, difficili da gestire, perché – racconta alla Nación – ti passano tante cose per la testa. Non mi posso lamentare di niente, mi trovo in un luogo molto comodo, Miami, dove si può uscire, si può fare sport all’aperto, che è una cosa buona. Sono qui, aspettando di poter rientrare in Svizzera prima o poi.
L’umore? Bisogna far rallentare un po’ il cervello, perché l’essere umano è abituato a programmare, a pensare nel futuro, a fare piani. Nel mio caso è lo stesso: mi muovo in continuazione, per cui la mente comincia a pensare a tutte queste cose e tutto diventa difficile, soprattutto di sera a volte fatico un po’ a dormire, come penso che succeda a tutti. Penso alla gente che sta attraversando davvero un brutto periodo per la situazione economica… sono pensieri che fanno capolino e come fai a fermarli e non pensare? È molto difficile”.
Il tennis ti ha dato tanto, ti ha insegnato tanto, ma forse ti ha procurato anche qualche dispiacere. Ogni tanto pensi che avresti preferito un’altra vita? Evitare le luci della ribalta, avere più libertà?
No, il tennis mi ha dato molto di più di quello che mi può aver tolto. Sono una persona fortunata. Ho potuto viaggiare, conoscere il mondo, avere amici ovunque. Tutto questo forse non lo avrei avuto. Questa esperienza mi ha fatto crescere e mi ha aiutato a maturare. Ero una persona timida e introversa: negli anni della scuola media ero molto chiusa e condizionata dalla timidezza. Il tennis, dovermi esprimere mi ha aiutata moltissimo nella mia personalità. Ovviamente ho sempre preferito difendere la mia sfera privata, perché sono fatta così e così mi sento più a mio agio; ma il tennis è meraviglioso: il contatto con la gente mi fa stare bene. E adesso me lo godo ancora di più.
Nel documentario The Last Dance, Michael Jordan dice: “Molti vogliono essere Jordan un per un giorno o per una settimana, ma forse dovrebbero esserlo per un anno. Poi vediamo se lo desiderano ancora”. Ti ritrovi in questa frase, per quanto riguarda la fama e la pressione che hai subito?
gabriela sabatini ubaldo scanagatta
Non l’ho visto ancora, ma lo vedrò, perché è stato una delle leggende più grandi dello sport. Non credo al suo livello, ovviamente, ma anch’io ho sentito quella pressione, quelle aspettative con cui ho dovuto fare i conti. Forse è la parte più difficile, perché una ragazza non è abituata ad avere una vita così sotto i riflettori. Sì, credo che sia stato l’aspetto più duro: gestire questa situazione, separare le cose, perché qui e là sentivo giudizi che non mi facevano stare bene, che mi facevano soffrire, per cui ho dovuto separare i piani e concentrarmi quasi esclusivamente nel gioco, nel tennis, nei miei obbiettivi. E questo mi ha aiutato. Però non so se sarebbe così bello stare nei passi di Jordan per qualche giorno… Bisogna saperlo gestire, dev’essere una fatica incredibile a quei livelli.
Una volta hai detto che “la fama e la sovraesposizione hanno avuto qualcosa a che fare” con il fatto di non raggiungere il n.1. A volte le aspettative erano soffocanti?
Sì, soprattutto all’inizio, perché parliamo di quando avevo 16, 17 anni e cominciava la storia della fama, dei giornali che parlavano di me e a volte fa male quando si scrivono cose che non si conoscono davvero. È lì che bisogna separare i piani e imparare come funziona, non uscire dal proprio terreno, seguire gli obbiettivi e la professione. Questo mi ha permesso sempre di restare concentrata. Devi trovare un equilibrio: isolare la tua parte più privata, senza smettere di essere te stessa, e senza che questo incida su tutto il resto.
La carriera tennistica di Sabatini è stata un capolavoro, con grandi picchi di ispirazione e anche qualche ostacolo sul finale. Si potrebbe aprire il baule dei ricordi e scegliere a caso: nel 1985, a soli 15 anni, è stata la semifinalista più giovane della storia del Roland Garros, sconfitta da Chris Evert, allora n. 2 della Wta.
Sì, mi ricordo: è incredibile, se ci penso adesso, stare sul centrale del Roland Garros a 15 anni. In quel momento, credo, non capivo nemmeno dove fossi, contro chi stessi giocando. Anche se in un certo senso lo sapevo, perché Chris Evert, quando cominciai a prendere in mano la racchetta, era già molto in alto. Però trovarsi a giocare contro di lei, a quell’età, è qualcosa di cui non ti rendi bene conto, non ci pensi. Mi divertivo a stare lì, a poter giocare una semifinale, in un torneo come il Roland Garros, in una città come Parigi. Non hai del tutto consapevolezza di quei momenti, poi a volte guardo le foto e dico: “Wow, che piccola che ero!”.
Lo spirito olimpico di Seul 1988, quando hai conquistato la medaglia d’argento ti ha segnata? In realtà continui a essere un punto di riferimento per gli sportivi argentini.
Sì, è stata un’esperienza unica, perché i tennisti, ad eccezione della Fed Cup, non hanno l’opportunità di rappresentare il proprio Paese. Allora il torneo olimpico non dava punti WTA, però era così importante e gratificante indossare i colori dell’Argentina e condividere quell’esperienza con gli altri atleti: stai nello stesso edificio, li incontri in continuazione, era come una famiglia, andavamo a mangiare tutti insieme. Mi dava tantissima energia. Ricordo che mi svegliavo al mattino e tutti si stavano allenando, preparandosi per le loro gare, e anche a me veniva voglia di allenarmi. Tornai da lì carica come non ero mai stata. Ai Giochi olimpici respiri davvero lo sport e capisci il valore dello sforzo che fanno molti atleti, perché la maggior parte di loro sono dilettanti e si preparano solo per quel momento, che alla fine dura due minuti o una giornata. Da allora in poi mi piace mantenere contatti con gli altri sportivi, incitarli, accompagnarli. È molto bello e mi dà grande soddisfazione.
È impossibile non parlare di New York e Roma, due luoghi in cui ti caricavi di energia e dove hai ottenuto i tuoi migliori risultati (Us Open 1990, due Master al Madison Square Garden e quattro titoli nella capitale italiana).
Sì, credo che influisse molto sul mio gioco, sul mio stato d’animo. E ovviamente New York e Roma erano posti in cui fuori dal campo da tennis stavo bene. Vabbè, in Italia, a Roma, mi sento come a casa perché hanno le nostre stesse abitudini. E poi parliamo del pubblico, perché in entrambe le città il pubblico era molto caldo, molto espressivo, si lasciavano coinvolgere dalla partita e questo mi infondeva più energia ed entusiasmo.
A Roma venivano a vederti anche i tuoi familiari, no?
Sì, tuttora ho alcuni parenti da parte di mio padre, che venivano a posta per il torneo, visto che vivono sull’Adriatico, nelle Marche. Quando arrivava il torneo, venivano anche loro, così avevamo modo di vederci ed era bello anche stare con loro. Sono andata anche al paese dei miei antenati, dopo che ho lasciato il tennis, ho il passaporto, mi hanno offerto le chiavi della città, è stato bellissimo conoscere la casa dove viveva la nonna di mio padre.
gabriela sabatini eugenio rossi
Ami viaggiare. Ti è capitato di andare in posti dove non pensavi di essere conosciuta?
Mi è successo quando avevo già smesso di giocare e andavo a promuovere il mio profumo, come a Varsavia, in Polonia. C’era una coda lunghissima per avere il mio autografo. Mi è successo soprattutto in posti dove non ero mai andata a giocare e mi conoscevano più per i profumi che per il tennis: è stato molto curioso e sorprendente.
Gaby, ti guardi allo specchio il 16 maggio, guardi un po’ più in profondità, ripercorri la tua vita per fotogrammi. Che cosa vedi? Che cosa ti piace? E che cosa no?
Sento di essere una privilegiata della vita, ho fatto tutte le cose che ho desiderato fare, continuo a farle e avere questa opportunità è già tanto. L’importante è stare bene con sé stessi. Cerco di condurre una vita sana, sono felice di stare dove sono, di aver vissuto quello che ho vissuto. Ovviamente, ti dici anche: “Beh, certe cose potevano essere un po’diverse”.
In che senso?
Forse in campo professionale, forse in campo personale. Però sento di aver preso le decisioni che mi sembravano giuste in quel momento, per cui mi sono sentita e mi sento bene. Non ho nessun rimpianto: mi sono presa sempre tutto il tempo necessario per decidere. Mi sento bene con quello che sono e con quello che ho e mi sento grata per tutto.
Hai perduto alcune persone care. Che rapporto hai con la morte?
È dura affrontare queste situazioni, l’ho vissuto con mio padre (Osvaldo, morto a marzo 2016): il peggio che possa succedere è vedere una persona cara che soffre. Però, parlando della morte è parte della vita, è la nostra continuazione, anche se non è così facile da accettare. Per esempio perché una persona non c’è più? O perché ci sono alcune morti così ingiuste? È difficile da elaborare psicologicamente.
Nella tua carriera hai ricevuto aiuto dagli psicologi?
Sono stata in terapia per molti anni, al di là del tennis (in Argentina, andare in analisi è come andare dall’oculista per noi, almeno era così negli anni Ottanta. Ndt). D’altro canto ho lavorato anche con uno psicologo dello sport, quando ho ritenuto di averne bisogno. Mi ha aiutato moltissimo, sia in un momento specifico della mia carriera sia alla fine, quando non riuscivo a elaborare quello che mi succedeva in campo, quando non mi divertivo, non sopportavo gli allenamenti. Per questo sono tornata dallo psicologo e mi ha aiutato a capire che era il momento di dire basta.
Chi ti conosce bene dice che da moltissimo tempo il tennis non ti faceva sorridere come al Madison Square Garden, quando hai giocato un’esibizione con Monica Seles nel 2015. Hai quella foto come profilo in rete. Dopo anni senza gioia, è li che ti sei riconciliata con il tennis?
Sì, sì, mi avevano proposto di giocare al Madison l’anno precedente, ma non ero preparata, non gioco molto, magari una volta ogni tanto, ma in quel momento erano passati tre o quattro anni senza giocare e avevo rifiutato; però l’idea mi frullava in testa, più che altro per tornare a New York, al Madison. Quando me l’hanno chiesto di nuovo, ci ho pensato su e ho detto: “Ok, mi impegno a farlo, comincio ad allenarmi”.
Mi sono allenata per quattro mesi prima della partita. Sì, ero rimasta con la sensazione di non divertirmi tanto con il tennis e in quei mesi sono tornata a divertirmi come quando ero piccola. Addirittura, negli ultimi tempi da professionista il servizio era una sofferenza e invece lì mi sono sentita così bene a tirare forte, così a mio agio! Perché ho cercato di prendere tutto alla leggera. Prendo sempre tutto troppo sul serio.
Ho pensato: “Se un giorno non ho voglia di allenarmi, non lo faccio”. Non mi allenavo tutti i giorni, uno ogni due. Intendo il tennis, perché l’allenamento fisico non l’ho mai trascurato e questo è stato un bel vantaggio, altrimenti sarebbe stata molto più dura. Quando mi sono trovata al Madison Square Garden era cambiato un bel po’, sembrava un posto diverso, ma mi sono divertita un sacco.
Che diresti oggi alla Sabatini tennista?
(Sorride) Non ho niente da dirle, se non che mi sento molto orgogliosa di quella persona, di tutto quello che ha lasciato, di quello che ha consegnato al tennis.
E magari le diresti di prendersi alcuni momento del gioco con più tranquillità?
Sì, forse sì, che non prenda le sconfitte come la fine del mondo. Più che altro, che siano qualcosa di positivo e non di negativo, perché quando perdevo no volevo avere niente a che fare con nessuno, credo che pretendevo troppo da me stessa e a volte giocavo contro di me. Proverei a prendere tutto con più tranquillità, di cercare altre cose da fare. Avevo cominciato a farlo nell’ultimo periodo e mi aveva aiutato sapere che esiste un mondo fuori dal tennis, che nella vita si possono fare altre piccole cose. Questo cercherei di introdurlo di più nel tennis.
Gastón Gaudio raccontava che in finale di carriera, di notte, usciva a fare foto. Tu che facevi?
In un certo periodo anch’io mi sono data alla fotografia e giravo con la macchina fotografica. In un altro periodo viaggiavo con la chitarra, che non era esattamente facile perché era un po’ grande da portare in giro. Ricordo che eravamo ad Amelia Island, allora Carlos Kirmayr era il mio allenatore e insisteva molto su questa parte, mi ha aiutato molto a ridurre la pressione. Io dicevo: “Oh, che bello sarebbe andare a cavallo sulla spiaggia!”. E Carlos, dopo la partita, mi diceva: “Andiamo a cavallo sulla spiaggia”. E così tante altre piccole cose. Carlos insisteva e funzionava.
Quali sono le prime cose che farai quando avremo recuperato un po’ di normalità dopo la pandemia?
Abbracciare i miei cari, andare a prendere un caffè o un gelato con gli amici. Però soprattutto vedere i miei cari e poterli abbracciare.
(Traduzione di Alessandro Condina)