Giovanni Audiffredi per il mensile AD
‘’Una sera, attovagliati a casa di Gino De Dominicis, come segnaposto ci fece trovare una scatoletta di carne in scatola Simmenthal. Gli chiesi cosa c’entrasse un oggetto simile, che cozzava con quelle serate con i camerieri in guanti bianchi. Mi rispose che era per ricordarci da dove venivamo tutti quanti».
Un gesto pop? La sua rivisitazione del barattolo di zuppa Campbell?
«Forse più un monito popolare, quindi kitsch: nulla è più vero del vero. Il kitsch, annullando le sovrastrutture intellettuali, provoca un immediato viscerale senso di appartenenza, di autenticità. È questa la forza della sua estetica contemporanea. Così, anche se ci davamo arie di intellettuali e uomini di mondo, sempre carne in scatola eravamo abituati a mangiare».
Anche Andy Warhol allora è kitsch?
«Certo, il pop è la contrazione di popular. Lo è anche Roy Lichtenstein con i lavori tratti dai fumetti. Kitsch è poi un concetto che ama cavalcare l’onda e muta rispetto alle epoche. Nel caso di Warhol è la trasposizione di una cultura popolare che sbertuccia i canoni figurativi del ritratto. È grazie a questi artisti che il kitsch ha vinto la sua lotta di classe. E per paradosso viene esposto con tutti gli onori nelle case dei ricchi di oggi, come fosse la nuova arte classica».
Roberto D’Agostino, inventore del sito d’informazione Dagospia, cultore di due mondi, il kitsch e il camp, e osservatore divertito di un terzo, di futuribile consacrazione: il trash. Gino De Dominicis, morto a Roma a 51 anni, incollocabile tra le avanguardie degli anni Settanta. La sua opera Calamita Cosmica, gigantesco scheletro di 24 metri con il naso da pinocchio, è finita esposta anche a Versailles, castello che fu uno dei primi riferimenti estetici del kitsch. Ovvero della cultura dello scarto.
Sì, perché ai tempi di Ludovico II di Baviera, è così che si traduceva correttamente il termine. In quegli anni antiquari e mobilieri bavaresi furenti inveivano contro i pasticcioni, i falsari da strapazzo, e i portatori di mediocrità: riassumendo, kitsch. Una mezza imprecazione verso l’imperversare di copie, più o meno maldestre, di divanetti, poltrone, candelabri, scrittoi, che mortificavano la loro arte.
E poi, con materiali scadenti, la rendevano seriale, la svuotavano del prezioso contenuto artigianale, per farne arredi destinati alle aspirazioni della classe media. Mentre invece quei loro pezzi, frutto di settimane di lavorazione, preziosi in origine, erano stati pensati per allestire Herrenchiemsee, Neuschwanstein o Linderhof, castelli da favola, che il sovrano tedesco fece erigere, come altari del suo gusto ridondante.
Luchino Visconti lo portò al cinema e lo rese di culto con Helmut Berger nei panni di Ludwig. Film che con Dietro i candelabri di Steven Soderbergh - dove Michael Douglas rievoca la vita del pianista Liberace e della sua villa più dorata, delle fontane e delle cupole del Peterhof di San Pietroburgo - sono i due capisaldi iconografici del mondo gay, che strizza l’occhio alla cultura camp.
Camp, termine meta-snob. Fabio Cleto gli ha dedicato il monumentale PopCamp (due volumi, oltre 600 pagine e 300 immagini, Marcos y Marcos) interpretandolo come sublimazione del kitsch. Ma camp è parola d’ordine da sussurrare come accesso a microcircoli intellettuali che rifuggono le categorie. È sinonimo di eccentrica sessualità, ma soprattutto punto di ribaltamento di un’idea: in fondo un’élite esiste in quanto si distingue dalla massa, quindi prende forma nello scarto. Che poi è il kitsch.
Dagostino, cos’è kitsch e cos’è camp?
«Banalizzando: se kitsch è il cattivo gusto, allora camp è il gusto del cattivo gusto. Ma kitsch ormai non è solo arte folk. O peggio: degradazione dello spirito artistico che un tempo, nel migliore dei mondi possibili, doveva connettersi a un’opera ma anche al prezioso artigianato dei mobili classici o al design concettuale. E camp nasce da ‘Notes on Camp’, scritti da Susan Sontag nel 1964, che per prima prova a imbrigliare un moto dell’anima, un’intuizione che si sprigiona dentro coloro che sono in grado di apprezzare ciò che la presunta élite disprezza».
Valgono le parole di Herman Broch: «Vi è un pizzico di kitsch in ogni arte e un pizzico di arte in ogni kitsch»?
«Non è più il negativo dell’originalità dell’opera d’arte. Anzi, nella massificazione del gusto, lo interpreta più di tanta arte del passato e del presente. Uno sforzo culturale ha un prezzo. Determinarlo è una variabile. Bisogna avere la voglia, l’indole, la capacità di recepire questo messaggio. È questo che smuove il desiderio e poi il portafoglio. Diversamente resta un bello e impossibile o semplicemente una pazzia da rifuggere. Il kitsch invece non solo è il presunto bello a portata di mano, ma può diventare anche elitario se è d’autore».
Vale anche per l’arredamento?
«Dopo la rivoluzione dell’Ikea, che ha arredato le case con prefabbricati, parlare di mobili kitsch che piacciono ad arabi e russi, gli stessi che poi sono in grado di acquistare, più che per gusto per potenziale economico, i grandi mobili classici del made in Italy, è surreale. Il kitsch è santificato nelle mostre (Gillo Dorfles alla Triennale di Milano con Kitsch - oggi il kitsch, ndr), incorniciato nei saggi (Andrea Mecacci Il kitsch, il Mulino, ndr), ma soprattutto ha assunto una dimensione culturale. Oppure un’aurea snobistica, come le signore che vanno per mercatini. L’Auer Dult di Monaco di Baviera, ironia della sorte, è una tappa irrinunciabile del kitsch. Ma allo stesso tempo per alcuni è un santuario del trash».
Il trash è il terzo anello della catena?
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«Il vocabolo ha assunto una samba di significati equivoci. Trash è uno dei concetti chiavi della nuova cultura di massa: siamo tutti avanzi di una realtà immondizia. Ma non confondetelo con il riciclo, quello è sano ambientalismo».
Casa sua è più kitsch o camp?
«È una wunder house. Chi entra generalmente la trova sorprendente. La tendenza all’accumulazione è un atteggiamento estetico kitsch, la ricerca e il collocamento non casuale di pezzi particolari potrebbero essere una nota Camp. Gli oggetti religiosi, da quelli più ricchi ai santini di carta o plastica, mostrano che esiste anche un livello religioso del kitsch, nella massificazione degli oggetti di culto. Ma preferisco pensare che casa mia sia un diario di vita, che mischia l’alto e il basso. Decifrarlo richiede voglia e tempo. In fondo per ogni cosa intelligente che diciamo poi ci esce di bocca anche una stupidaggine».