Antonio G. Rebuzzi* per “il Messaggero”
*Direttore Cardiologia intensiva - Policlinico Gemelli - Università Cattolica Roma
«Ogni affezione della mente che si manifesti con dolore o con piacere, con speranza o con paura, è la causa di una agitazione la cui influenza si estende al cuore». Con queste parole, già nel 1628 il medico inglese William Harvey, primo a descrivere il sistema cardiocircolatorio dell'uomo, chiariva lo stretto rapporto che lega mente e cuore.
Questa osservazione, semplice ma profonda, sembra essersi persa nella medicina moderna. Oggi siamo bravi nel trattare le malattie, molto meno attenti nel trattare i pazienti e spesso incapaci di trattare le persone. Noi cardiologi abbiamo sviluppato eccezionali tecniche diagnostiche ed interventistiche.
Utilizziamo medicine all'avanguardia, ma prestiamo poca o nulla attenzione allo stato psicologico delle persone che curiamo. Eppure proprio il cuore è uno degli organi maggiormente in relazione col cervello. La frequenza cardiaca, ad esempio, cambia in base allo stato psicologico ed emozionale.
LE INFORMAZIONI
Nel cuore ci sono oltre 40.000 neuroni, e le informazioni che vengono da questi raccolte sono indirizzate al cervello innescando reazioni che si ribaltano a loro volta sul sistema cardiovascolare. Così come patologie dell'organismo quali diabete, obesità o ipertensione possono danneggiare il cuore, alla stessa maniera lo danneggiano patologie della mente o alterazioni della psiche. Ce lo ricorda il prof. Glenn N. Levine del Baylor College of Medicine di Houston (Texas) in un editoriale pubblicato sulla rivista Circulation. Come noto, uno stress molto forte ed improvviso può aumentare di tre o quattro volte il rischio di attacchi anginosi fino all'infarto in chi è predisposto.
Il terremoto di Northrige, vicino Los Angeles, nel 1994 fece aumentare del 260% le morti di origine cardiaca nell'area metropolitana rispetto ai giorni precedenti. Nella sindrome di Takotsubo, altrimenti classificata come cardiomiopatia da stress, un'emozione profonda (un lutto come una separazione) induce nel cuore una disfunzione marcata, delle modifiche dell'elettrocardiogramma ed un rialzo degli enzimi cardiaci tipici dell'infarto, senza che vi sia alcuna ostruzione delle coronarie.
Stesso discorso di aumento notevole del rischio cardiovascolare vale per la depressione. C'è una chiara relazione tra grado di depressione e varie patologie cardiache. Nel Multi Etnic Study of Atherosclerosis (studio di prevenzione a cura dell'American Heart Association) le persone hanno in dieci anni un rischio di sviluppare fibrillazione atriale del 34% superiore ai non depressi. Stessa storia per le malattie coronariche.
I pazienti depressi dopo un infarto vanno più facilmente incontro a recidiva rispetto a quelli non depressi. Anche il recupero dopo un intervento di by pass aorto-coronarico è più lento e con maggiori complicanze nei depressi. Va ricordato che la depressione spesso si associa a aumento del fumo ed incremento del peso, e conseguente maggiore rischio cardiaco.
L'OSPEDALE
La perdita di autostima diventa un killer per le malattie coronariche. Mentre un atteggiamento ottimistico è stato in vari studi correlato a più basse percentuali di ospedalizzazioni e ridotta mortalità. Come medici, siamo perciò obbligati a tener conto non solo delle malattie, ma anche dei malati. Curare non significa solo tendere ad una assenza di malattia ma anche occuparsi del loro benessere psichico.