Silvia Turin per il ''Corriere della Sera''
Ci sono alcuni studi che convergono sull’ipotesi che il COVID-19 preferisca un clima fresco e asciutto rispetto a Paesi con clima caldo e umido. Un fenomeno che era già noto per il virus della SARS.
Più casi tra 3-13 gradi
Nell’analisi più recente su dati raccolti dalla Johns Hopkins University effettuata dal MIT di Boston si evidenzia come il numero massimo di casi di coronavirus si è verificato in regioni con temperature comprese tra 3 e 13 ° C. Al contrario, Paesi con temperature medie superiori a 18 ° C hanno visto meno del 5% dei casi totali. Questo modello funziona anche per gli USA, dove gli stati del sud (come Texas, Florida e Arizona) hanno registrato finora un tasso di crescita più lento rispetto agli stati del nord (come Washington, New York e Colorado).
Il virus preferisce città fredde e secche
Altri due studi hanno osservato la stessa dinamica: il primo, appena pubblicato da due ricercatori spagnoli e finlandesi, ha scoperto che finora il 95% dei casi positivi a livello globale si sono verificati a temperature comprese tra -2 e 10 ° C in condizioni asciutte. Il secondo, pubblicato all’inizio di questo mese da un team guidato da ricercatori dell’Università di Beihang in Cina, ha esaminato la situazione nelle città cinesi scoprendo che nei primi giorni dell’epidemia, a gennaio, prima di qualsiasi intervento del governo, le città calde e umide vedevano un tasso di diffusione più lento di quelle fredde e secche.
Previsioni matematiche
Nello stesso studio, secondo il modello osservato in Cina, i ricercatori hanno composto due cartine che mostrano la diffusione del virus nel mondo a marzo e la previsione (su stima solo matematica) di come sarebbe a luglio se considerassimo che il virus seguisse la variabile clima nel modo ipotizzato.
Cautele su più fronti
Nessuno di questi articoli ha ricevuto una revisione scientifica cosiddetta “da pari” e le correlazioni tra diffusione e condizioni climatiche potrebbero essere dovute a variabili di altro tipo: ad esempio le risposte dei governi, le linee di contagio, la mancanza di test da sottoporre alla popolazione. In un recente post , Marc Lipsitch, direttore del Center for Communicable Disease Dynamics presso la Harvard School of Public Health, ha fatto eco a questa analisi: «Anche se possiamo aspettarci modesti ribassi nella contagiosità di SARS-CoV-2 in condizioni climatiche più calde e umide, non è ragionevole aspettarsi che questi ribassi da soli rallentino la trasmissione abbastanza da creare l’abbassamento della curva».
Anche gli scienziati inoltre sottolineano che tra l’11 e il 19 marzo si è osservato un aumento del numero di casi in regioni con temperatura> 18 ° C di almeno 10mila persone. Sono quindi dati basati su osservazioni: la relazione tra il numero di casi/ temperatura e umidità è forte, tuttavia non sappiamo quale fattore ambientale sia più importante. Potrebbe essere la temperatura o l’umidità o entrambe. È vero che il virus della SARS perdeva la sua capacità di sopravvivere a temperature più elevate. E che anche l’influenza è stagionale.
Non possiamo aspettare l’estate
Ma per l’emisfero settentrionale la strada da percorrere non cambia: isolamento e distanziamento sociale più la chiusura quasi totale, misure che, invece, sembrano funzionare, al di là delle bizze del tempo. E peraltro non potremmo - noi in Italia - permetterci di non agire per aspettare l’estate. La buona notizia è che se il clima contasse, anche la natura sarà a nostro favore nei prossimi mesi.