Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi per ''Il Sole 24 Ore''
Le multinazionali alimentano ogni giorno i paradisi fiscali con iniezioni di miliardi di dollari, mandano in tilt medie e piccole imprese e aumentano il monopolio dei mercati.
Nelle stesse ore in cui il Capo dello Stato Sergio Mattarella lanciava il suo grido d'allarme contro gli squilibri fiscali nella Ue, che favoriscono le multinazionali e albergano nei paradisi fiscali europei, il Fondo monetario internazionale (Fmi) dava alle stampe un report sui lati nascosti e bui dell'economia mondiale. Avvalorando le parole di Mattarella ma su scala mondiale.
Le parole di Mattarella e il caso Shell in Olanda
«Vanno fatti passi avanti per una fiscalità europea che elimini forme di distorsione concorrenziale e affronti il tema della tassazione delle grandi imprese multinazionali, per un sistema più equo e corretto», ha scritto Mattarella nel suo messaggio, letto dall'ex premier Enrico Letta il 7 settembre nel corso del Forum Ambrosetti a Cernobbio (Como).
Chissà se il Presidente della Repubblica Mattarella aveva in mente il caso dell'Olanda che, in queste ultime ore, continua a destare l'attenzione di tutto il mondo, ancora una volta per il caso di una multinazionale che lì viene ospitata.
Il 4 settembre il presidente del Partito socialista (Sp) olandese, Lilian Marijnissen, ha infatti affermato che la situazione fiscale del colosso petrolifero anglo-olandese Shell, in Olanda è fuori dal mondo. Nel corso di un programma televisivo, la parlamentare socialista ha detto che Shell paga meno del valore di un giro di birre al pub. «Paghi più tasse per un round con i tuoi amici sulla terrazza, di quanto Shell non paghi per i miliardi di profitti che la compagnia guadagna nei Paesi Bassi», ha affermato.
Jan Van de Streek, professore di diritto tributario societario, ha sottolineato che Shell paga solo l'imposta sulle società. La multinazionale ha recentemente annunciato che sono stati conclusi accordi con le autorità fiscali per l'imposta sugli utili. Di conseguenza, il colosso petrolifero nel 2017 non ha pagato alcuna imposta sugli utili realizzati nei Paesi Bassi.
Vincent Kiezenbrink ricercatore per il network Tax Justice, conferma la dichiarazione di Marijnissen: «Shell ha stretto accordi con il governo. Ciò consente di detrarre le perdite provenienti dai progetti stranieri dagli utili realizzati nei Paesi Bassi». Secondo Kiezenbrink, Shell ha realizzato un utile di 1,7 miliardi di euro nel 2017 (ultimo dato disponibile). In precedenza, la società aveva annunciato che il profitto era stato completamente azzerato dalle perdite all'estero. «E dato che non è possibile riscuotere tasse su zero euro l'affermazione che un round di birre su una terrazza è più tassato del profitto di Shell è quindi corretta», ha concluso Kiezenbrink.
SEMPRE PIÙ IN ALTO
Gli investimenti diretti esteri “fantasma” superano quelli autentici. Miliardi di dollari (scala Sx) e percentuale delle entrate globali degli investimenti esteri diretti (scala Dx) Nota (*): Investimenti diretti esteri Fonte: Damgaard, Elkjaer, and Johannesen (forthcoming)
Secondo il Fondo monetario internazionale, però, c'è qualcosa che non va se solo si considera che il Lussemburgo, con appena 600mila abitanti, attrae 4 trilioni di dollari (ovvero 6,6milioni pro-capite), quanto gli Stati Uniti e molto più della Cina.
In pratica, dunque, afferma l'Fmi, gli investimenti diretti esteri sono diventati investimenti finanziari tra imprese che appartengono allo stesso gruppo multinazionale e la maggior parte di questi sono “investimenti fantasma” poiché passano attraverso scatole vuote, le cosiddette “corporate shell”, che non hanno attività, non conducono operazioni finanziarie e, piuttosto, servono solo a nascondere le attività della holding, condurre operazioni finanziarie infragruppo o gestire asset intangibili per ridurre al minimo la tassazione globale.
L'Fmi calcola che finora su 40 trilioni di dollari di investimenti diretti esteri veicolati nel mondo, quelli “fantasma” valgono 15 trilioni di dollari – che è come a dire il Pil annuale di Cina e Germania messe insieme – quasi la metà dei quali tra Lussemburgo e Olanda. Se si aggiungono Hong Kong, British Virgin Islands, Bermuda, Singapore, le Isole Cayman, Svizzera, Irlanda e Mauritius, ecco che questi 10 Paesi ospitano complessivamente l'85% degli investimenti fantasma.
Multinazionali “avvinghiate” ai profitti
Mattarella ha focalizzato il suo sguardo sull'Unione europea, già messa sotto la lente dalla stessa Commissione di Bruxelles che nel marzo 2018 aveva stigmatizzato le politiche fiscali di sette paesi della Ue: Lussemburgo, Belgio, Olanda, Irlanda, Malta, Cipro e Ungheria. In questi paesi “Fiume di denaro” ha iniziato un viaggio per raccontare in che modo lo squilibrio fiscale incide sulla libera concorrenza e il libero mercato.
juncker da una parte presidente della commissione dall altra premier lussemburghese
Ci ha poi pensato il Fondo monetario ad allargare lo sguardo al mondo intero, evidenziando ancor di più lo squilibrio. «Come regola generale – scrive infatti Nicholas Shaxson nel numero di settembre della rivista F&D dell'Fmi – più è grande la multinazionale, di cui alcune detengono centinaia di filiali offshore, tanto più pervicacemente è avvinghiata al sistema offshore e tanto più vigorosamente lo difende ma anche i governi più forti difendono questo sistema perché hanno un proprio tornaconto».
Ed eccoli lì i Paesi che beneficiano dell'immobilismo mondiale – da qualche anno contrastato da timide politiche comuni adottate in ambito europeo e mondiale – contro l'aggressività fiscale. Tax Justice mette nell'elenco dei beneficiari dell'elusione fiscale delle tasse societarie, in primis Isole Vergini britanniche, poi Bermuda e Isole Cayman. L'indice di opacità finanziaria elaborato dallo stesso network mette in lista la Svizzera, seguita da Stati Uniti e Isole Cayman: sono loro al top per quote di ricchezza privata proveniente dall'estero.
Le grandi imprese Usa “in paradiso”
I conti sono presto fatti. La rivista statunitense Fortune, nel 2017 (ultimo dato disponibile) ha stimato che le principali 500 imprese a stelle e strisce da sole detenevano in quell'anno oltre 2,6 trilioni di dollari nei Paesi offshore, sebbene una piccola quota fosse rientrata l'anno successivo grazie alla riforma fiscale Usa del 2018.
Il costo per i Governi di tutto il mondo è altissimo: tra i 500 e i 600 miliardi di dollari all'anno solo da mancati introiti fiscali da tassazione sulle imprese. Delle entrate tributarie perse, le economie a basso reddito ne contano circa 200 miliardi, una cifra superiore ai circa 150 miliardi di dollari che questi Paesi ricevono ogni anno dai programmi di sviluppo e assistenza proveniente dai Paesi esteri. E, contemporaneamente, una cifra percentualmente superiore a quanto detenuto nei centri finanziari offshore dalle economie degli Stati più avanzati.
il porto franco all aeroporto di lussemburgo
In altre parole, tanto più sono poveri i Paesi, tanto più cresce il rischio che i capitali volino verso i paradisi fiscali. E per farsi capire, l'Fmi usa un paradosso: fermiamoci a pensare quanti ricchi nigeriani possono avere soldi custoditi a Ginevra o a Londra e, viceversa, quanti svizzeri o inglesi ricchi possano avere proprietà finanziarie a Lagos. I Paesi offshore drenano risorse ai poveri e li riversano ai ricchi. Una sorta di Robin Hood al contrario.
Nei Paesi offshore fino a 36 trilioni di dollari
Il dato del tesoro nascosto fuori dai naturali confini nazionali da persone fisiche è sicuramente sottostimato visto che nel 2016 l'economista americano James S. Henry ha stimato che, complessivamente, nei paradisi fiscali nel 2014 era stipata un'astronomica cifra calcolata tra i 24 e 36 trilioni di dollari. Di quei 24/36 trilioni di dollari, ben 12,1 provenivano dai Paesi in via di sviluppo (rispetto agli 8,9 del 2010) , anche grazie al ruolo svolto da governi corrotti a danno del proprio Paese. Secondo l'economista francese dell'Università californiana di Berkeley Gabriel Zucman, nel 2017 le persone fisiche hanno espatriato 8,7 trilioni di dollari nei paradisi fiscali (mentre erano 5,6 trilioni nel 2007, pari al 10% del Pil mondiale, la metà dei quali in Svizzera).
Il sistema offshore sta crescendo, scrive l'Fmi. Quando un Paese dà vita a una nuova scappatoia fiscale o ad un accordo segreto tra le parti che sono in grado di attrarre risorse mobili, altri Paesi copiano o li superano, in una corsa al ribasso.
Questo ha contribuito a un drammatico calo nella media delle aliquote di imposta sulle società, che sono diminuite della metà, dal 49% del 1985 al 24% oggi. Per le multinazionali statunitensi, il profitto aziendale transitato nei paradisi fiscali è passato da un 5%-10% stimato nel 1990 all'attuale 25-30% (fonte: Cobham and Jansky 2017).
L'Ocse, comunque, stima che a luglio 2019, ben 90 Paesi hanno condiviso informazioni su 77 milioni di conti correnti per un valore di 4,9 trilioni di dollari e in questo modo i depositi nei paradisi fiscali sono diminuiti tra il 20 e il 25% e le voluntary disclosures hanno generato 95 miliardi di dollari di tasse in più per i membri del G20.
I danni all'ecosistema
Il danno che molte multinazionali apportano all'ecosistema fiscale, economico e finanziario mondiale è enorme anche se si prendono in considerazione altri parametri.
Le multinazionali, scrive Shaxons per l'Fmi, sono in grado di manipolare i cosiddetti “transfer prices” delle transazioni fra le diverse filiali collocate nei diversi Paesi, facendo scivolare i profitti verso gli Stati a bassa tassazione. In altre parole, un'impresa può detenere un brevetto in un Paese a bassa tassazione e caricare royalties esorbitanti del prodotto nei Paesi a alta tassazione, in modo da massimizzare i profitti nei Paesi a bassa tassazione.
La cooperazione internazionale sta facendo il possibile e così l'Ocse, proprio in questi mesi, sta tirando le somme del progetto Beps diretto proprio alle multinazionali, che violano sempre più il principio della libera concorrenza. Se è vero che il progetto ha provato ad aumentare la trasparenza è anche vero che, ultimamente, è visto come un fallimento della stessa Ocse, soprattutto nei confronti dell'economia digitale. Gli stessi Stati Uniti – ricorda l'Fmi – hanno tardivamente riconosciuto che, con il calo dell'economia e degli scambi tradizionali, avrebbe senso spostare la tassazione laddove avvengono le vendite dei prodotti.
Mercati emergenti, come Colombia, Ghana e India, che hanno guadagnato peso nell'economia mondiale a partire dal 2016, spingono per un nuovo approccio. E così la stessa Ocse ha cominciato a riconsiderare il sistema, anche se alcuni Paesi in via di sviluppo spingono a favore di una formula che prenda in considerazione anche il personale impiegato, i mezzi e le infrastrutture, il che darebbe loro maggiori diritti di tassazione.
Il cambio di passo
Questo modo di ragionare – sottolinea ancora l'Fmi – rappresenta un passo avanti rispetto all'ortodossia del principio della libera concorrenza. E così nel gennaio di quest'anno, la diga ha cominciato a cedere. Per la prima volta l'Ocse ha ammesso che bisogna trovare una soluzione che vada oltre il principio della libera concorrenza. A marzo, Christine Lagarde, all'epoca direttore generale dell'Ocse e dal 1° novembre di quest'anno designata a diventare presidente della Banca centrale europea, ha definito il modello in corso datato e dannoso per i Paesi a basso reddito e ha sottolineato la necessità di andare verso una formula che premi l'allocazione delle risorse.
A maggio, ecco il terzo step dell'Ocse: una road map che si propone una riforma che si regga su due pilastri: 1) determinare dove devono essere pagate le tasse e su quali basi e quale quota di profitto debba essere tassata su quelle basi; 2) portare le multinazionali a pagare un livello minimo di tasse. Il professore Reuven Avi Yonah dell'Università del Michigan ha detto che il progetto è «estremamente radicale» e che sarebbe stato «del tutto inconcepibile» fino a cinque anni fa.
Troppo presto per dire se il vento sta girando. La stessa Fmi si limita a sottolineare che siamo all'inizio di un cambiamento che potrebbe essere epocale e pone l'accento sul fatto che le prove di forza tra Paesi non saranno più e soltanto tra ricchezza e povertà ma anche contribuenti e tra quelli che traggono profitto dal sistema attuale.
Il caso svizzero
Siamo, dunque, solo all'inizio della riforma per la tassazione delle imprese, a partire dalle multinazionali. Nessuno sa quali saranno i colpi decisivi e l'Fmi ricorda il caso, sorprendente, del segreto bancario svizzero. Nel corso degli anni, soprattutto Germania e Stati Uniti hanno provato, con scarso successo, a portare il Paese elvetico verso una maggiore trasparenza finanziaria. Nel 2009, quando gli Usa scoprirono che alcuni banchieri svizzeri avevano aiutato clienti americani a evadere le tasse, il Dipartimento della Giustizia ha cambiato strategia: l'obiettivo non era più lo Stato (la Svizzera in questo caso) ma i banchieri e le banche e così la Svizzera fece importanti concessioni contro il segreto bancario. La lezione che se ne trae, scrive l'Fmi, è che ogni responso internazionale deve includere sanzioni forti contro i privati, inclusi gli studi di consulenza e i professionisti, avvocati e commercialisti inclusi, quando facilitano attività criminali come, appunto, l'evasione fiscale.