UNA NUOVA SPERANZA – TRA I TANTI TENTATIVI A VUOTO CONTRO L’ALZHEIMER C’È UN PICCOLO SEGNALE POSITIVO: 28 MOLECOLE DELL’ANTICORPO ADUCANUMAB HANNO SUPERATO I PRIMI TEST – PER LA MALATTIA NON CI SONO NUOVI FARMACI DAL 2003. MA PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE FARE PROGRESSI SU QUESTA PATOLOGIA?
Elisa Manacorda per “la Repubblica – Salute”
Sono poche, pochissime, ma ogni tanto arrivano. Sono da prendere con le pinze, sono da considerare con grande cautela: piccoli passi avanti, risultati preliminari, ma pur sempre spiragli di speranza. Purtroppo però le buone notizie sullo sviluppo di terapie contro la malattia di Alzheimer sono una goccia nel mare dei troppi fallimenti. Le aziende farmaceutiche si ritirano dalla competizione, gli studi clinici non raggiungono gli obiettivi prefissati.
L' ultima disfatta è di pochi giorni fa: una sperimentazione di due farmaci su una forma rara, ereditaria, di Alzheimer non ha dato i risultati attesi. Così ora tutte le speranze sono tornate a posarsi su aducanumab, un anticorpo monoclonale sviluppato da Biogen, i cui trial clinici sono stati prima abbandonati e poi ripescati in vista di nuovi test di efficacia.
Ma è ancora troppo poco, visto che dal 2003 non arrivano nuovi farmaci.
E all' orizzonte non si vedono grandi sorprese, come dimostra anche uno studio appena pubblicato su Alzheimer&Dementia. A febbraio dell' anno scorso, scrivono gli autori dell' Università del Nevada, si contavano 132 molecole in sperimentazione in 156 studi clinici. Di queste però, solo 28 sono arrivate alla fase III, quella che precede l' arrivo sul mercato. Il resto deve ancora superare le fasi preliminari, I e II, che riguardano non ancora l' efficacia, ma la sicurezza, la tollerabilità e la non tossicità sull' organismo umano.
Il confronto con le altre aree terapeutiche è desolante.
Nel 2018, notano ancora i ricercatori, la Fda ha approvato 59 nuovi farmaci per diverse malattie. Ma niente contro l' Alzheimer. Perché è così difficile compiere quei progressi che pure sono stati fatti in altre aree, prima fra tutte l' oncologia? «Il paragone con la cura dei tumori è in effetti schiacciante - ammette Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Neuroscienze all' IRCSS San Raffaele di Roma - ma attenzione: la lotta contro il cancro è iniziata prima, negli anni Quaranta, quando all' Alzheimer erano dedicate poche righe sui testi universitari. Non solo: i primi farmaci sono arrivati alla fine degli anni '90 e si trattava di molecole sviluppate per altre patologie, non certo frutto di una ricerca specifica».
Un' altra difficoltà che rende la ricerca di una cura più complicata è il fatto che - come il cancro - anche l' Alzheimer ha un lungo periodo in cui la malattia lavora nel buio, senza sintomi visibili. E quando si vedono, sono facilmente sottovalutati. «Se una donna scopre un nodulo nel seno viene immediatamente invitata a fare accertamenti. Se un anziano ha qualche problema di memoria si pensa che sia il normale avanzare dell' età», dice Rossini.
Dunque le diagnosi di Alzheimer arrivano troppo tardi. E questa, aggiunge il neurologo, è anche la causa del fallimento degli studi clinici: le aziende conducono le sperimentazioni per lo più su casi di malattia conclamata, perché è più facile reperire i volontari e il mercato è assai ghiotto. Ma se il cervello è già danneggiato la riserva neurale è esaurita, e a quel punto non c' è farmaco che tenga. Infi ne, aggiunge Rossini, il cervello è un organo terribilmente complesso, e le sue malattie lo sono di conseguenza. Chiamiamo Alzheimer una miriade di manifestazioni diverse, e invece dobbiamo imparare a distinguere le tante forme per trovare terapie specifiche.
La chiave è quindi innazitutto nella diagnosi precoce. Oggi possiamo "vedere" la malattia in molti modi, cercando i marcatori dell' Alzheimer nel liquor cefalorachidiano o evidenziando con una PET il radiofarmaco che si "attacca" ai grovigli di tau e proteina beta amiloide. «Ma si tratta di strumenti che costano tanto e nessun sistema sanitario potrebbe sopravvivere a una diagnosi diffusa sulla popolazione», dice Rossini.
Per questo il neurologo sta lavorando al progetto Interceptor, promosso dal ministero della Salute e da Aifa per indagare gli esami utili alla diagnosi nelle persone che presentano un iniziale disturbo cognitivo lieve, prima che la malattia si manifesti in modo conclamato. In attesa di una cura, l' unica strategia resta quella di modificare gli stili di vita e avviare subito percorsi terapeutici per rallentare l' evoluzione del processo degenerativo.