LA MASCHERINA, IL NOSTRO BURQA LAICO - LO PSICOANALISTA AMMANITI: "ANCHE SE È FINITO IL DIVIETO DI INDOSSARLA ALL'APERTO, MOLTI ITALIANI LE PORTANO ANCORA: ORMAI FA PARTE DELL'ABITUDINE E DELLA STESSA NUOVA IDENTITÀ PERSONALE. SE LA DIMENTICHI A CASA TORNI A RIPRENDERLA - NASCONDE UNA PARTE DEL NOSTRO VOLTO, QUINDI DELLA NOSTRA PERSONALITÀ…"
Paolo Conti per il "Corriere della Sera"
Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo all'università Sapienza di Roma: è finito il divieto di indossare le mascherine all'aperto ma molti italiani le portano ancora. Perché?
«Ci sono molti motivi. C'è un primo aspetto che definirei contro-fobico. Di fronte alla paura del contagio, che certo non è finita perché non è definitivamente finito il contagio, la mascherina è ancora vista come uno strumento capace di sconfiggere il virus. Continuano a portarla anziani, adulti e gli stessi giovani: e di questo mi sono stupito anch' io, ma la mascherina è percepita come una barriera molto sicura anche da loro».
Barriera che resiste anche alla fine del divieto di indossarla all'aperto
«C'è un carattere italiano, legato al rapporto col potere, che non va sottovalutato. In Gran Bretagna da sempre si ostenta la scelta di non portare mascherine, un gesto di fiducia nella forza del corpo, quasi una sfida alle leggi: ma in quel Paese tagliarono la testa a un Re. In Francia ci sono state rivolte per le mascherine, e anche lì c'è stata la grande Rivoluzione. L'italiano, che non ha visto nulla del genere nella propria storia, preferisce adattarsi, evitare contrasti con la legge, essere in regola...».
La paura del contagio è ancora tra noi?
«È inevitabile. Per questo la mascherina è ancora tanto in uso: durante la pandemia gli italiani hanno studiato i modelli, le caratteristiche, c'era chi ne indossava due per estrema sicurezza, chi si informava puntigliosamente in farmacia o su Amazon...».
Solo senso di sicurezza?
«Beh, c'è anche un aspetto scaramantico e propiziatorio, anche questo molto italiano: la indosso perché mi porta bene, così non mi contagio. Un po' come uscire con l'ombrello per esorcizzare l'acquazzone. Aggiungerei un altro dato: c'è di mezzo l'educazione familiare italiana. Pensiamo a certi adolescenti australiani che, col freddo intenso, escono di casa in pantaloncini e t-shirt. Le mamme italiane invece coprono i figli con sciarpe, maglioni, cappelli. La mascherina rientra in questa cultura della protezione. Insomma, gli italiani riproducono i comportamenti appresi nell'infanzia... In più va ricordato che la mascherina ha abbassato il picco della normale influenza stagionale. Infatti i giapponesi la indossano da sempre».
Alberto Zangrillo, prorettore dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, accusa: usare ancora la mascherina all'aperto è il segno di una psicosi collettiva figlia dell'ignoranza e della disinformazione.
«Non è così. Una psicosi è una paura priva di legame con la realtà ma condivisa e che quindi determina uno stato di tensione generale. Qui il legame con la realtà c'è, la gente continua a usare le mascherine con tranquillità e per scelta personale. C'è anche un problema di gradualità, bisogna abituarsi a farne a meno».
Le abitudini sono difficili da dimenticare...
«Diceva René de Chateaubriand: se per follia credessi nella felicità, la collocherei tra le abitudini. Infatti c'è anche un aspetto ripetitivo, direi coattivo: se la dimentichi a casa torni a riprenderla, ormai fa parte dell'abitudine e della stessa nuova identità personale. In più tanti hanno finito con l'amarla perché è una sorta di burka laico che nasconde una parte del nostro volto, quindi della nostra personalità».
Il ministro Roberto Speranza ricorda che il decreto impone di usare la mascherina all'aperto in caso di assembramenti e che è dunque una questione di buonsenso.
«Mi sembra che questo buonsenso sia diffuso, si vedono tanti che mettono la mascherina quando vedono gruppi di persone in arrivo».
Anche l'uso della mascherina all'aperto finirà, un giorno o l'altro...
«Dovrà a un certo punto finire. Altrimenti si rischia di imitare quel famoso soldato giapponese che, da solo nella giungla, nel 1974 continuava a pensare che la Seconda guerra mondiale non si fosse mai conclusa».