“AVEVO IL MITO DI DAVID BOWIE. MI ERO TINTO I CAPELLI PER SOMIGLIARGLI” – SERGIO RUBINI SI CONFESSA A ANTONIO GNOLI - DAL RAPPORTO COMPLICATO CON IL PADRE ALLA SCOPERTA DEL TEATRO, L'ESORDIO AL CINEMA CON FELLINI (“MI COLPÌ MOLTO UNA SUA FRASE: "L'ULTIMO FALÒ DEI MIEI RICORDI SI È SPENTO CON AMARCORD"), L'ANALISI JUNGHIANA COME CURA DELL'ANSIA DOPO LA SEPARAZIONE DA MARGHERITA BUY- "IN UNA DELLE ULTIME SEDUTE MI È ACCADUTO DI ADDORMENTARMI PER POCHI SECONDI. FORSE VADO ANCORA IN ANALISI PER DORMIRE”
Antonio Gnoli per "Robinson - La Repubblica" - Estratti
Da anni naviga sul fiume dell'autocoscienza. Ha imparato a riconoscere le correnti e ad evitare quelle troppo impetuose. Non ha paura di raccontarsi. Ha una visione centripeta della vita: una serie di cerchi che convergono in un punto e quel punto desta ogni volta la consapevolezza di stare al mondo. Vado a trovare Sergio Rubini mentre sta finendo di montare il nuovo film dedicato a Leopardi.
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Tuo padre era un ferroviere.
«Per l'esattezza il capostazione di Grumo Appula, un piccolo paese della Puglia dove sono nato. Si rassegnò a quel lavoro dopo aver immaginato di fare altro nella vita».
Cosa?
«L'artista, o meglio il pittore. Voleva iscriversi al liceo artistico ma il padre non glielo consentì. E lui smise di studiare. Finì col fare lo stesso lavoro di mio nonno. Ma continuò a dipingere per tutta la vita. Tra quei pennelli e tele intuivo un'implacabile frustrazione. Miglior sorte capitò al fratello. Lo zio Ugo Rubini si specializzò ad Heidelberg in letteratura tedesca».
In che anni vi andò?
«Subito dopo la guerra. In famiglia erano perplessi, perché aveva scelto la lingua del nemico. Ma per lui era la lingua di Heine e Goethe. Fu anche uno dei massimi conoscitori dell'austriaco Thomas Bernhard. Notavi la foto di Kafka. Fu lui a spingermi a leggerlo. Ma la mia passione allora era la musica. Suonavo in un gruppo improvvisato».
Cosa?
«La tastiera. Avevo il mito di David Bowie. Mi ero tinto i capelli per somigliargli. Poi un giorno che non stavo bene fui sostituito da uno che si dimostrò più bravo di me. Ci restai male. A quel punto accettai di fare una piccola parte in una commedia allestita da mio padre. Aveva messo in piedi una piccola compagnia amatoriale. Ogni tanto recitavano commedie di De Filippo, a volte Pirandello».
Come andò?
«Doveva essere un ripiego e invece scoprii che il talento che non avevo per la musica lo possedevo per il teatro. Intendiamoci, niente di eclatante. Ma improvvisamente ebbi la sensazione che quello poteva diventare il mio mondo. Avevo 16 anni, a 18 mi presero in Accademia a Roma. Ero affascinato e terrorizzato al tempo stesso».
Terrorizzato perché?
«Temevo di perdere la mia identità. Ricordo come un incubo le lezioni di dizione. Non che non fossero necessarie. Ma pensavo con angoscia che cambiando intonazione e accenti avrei stravolto la mia storia».
Diventando un altro diverso da te stesso?
«La lingua con cui nasci è quella con cui pensi, anche i sentimenti hanno gli accenti che hai imparato da bambino. Cambiandoli non sapevo cosa sarei diventato».
A quel punto?
«Ho pensato a Carmelo Bene, alla sua dizione impeccabile. Non c'era niente nei suoni delle sue parole che lo riconducessero all'origine salentina. Eppure era sempre lui. Avvertivo nei suoi gesti e nel suo dire le stesse pause lunghissime del nostro Sud, lo stesso fasto barocco. La stessa ironia dilatata. Sia pure in modo diverso anch'io volevo salvaguardare la mia storia».
Come fosse una parte insostituibile?
«Che fossi io a raccontarmi e non l'altro a tradirsi attraverso la recitazione. Voglio dire che non credo alla "valigia dell'attore". Dalla quale si pescano gli abiti di scena. Attore è chi riesce a denudarsi per meglio mettere in gioco la propria storia. Vale per l'interprete come per chi affronta la regia di un testo».
Ti sei spesso diviso tra la regia e la recitazione.
«Per me è una forma di completamento».
Anche nel cinema?
«Sia pure in modo meno evidente, sì».
A proposito di mettere in gioco la propria storia, nel cinema hai esordito con "La stazione".
«Ho trasformato in film una storia che prima avevo portato a teatro. Ricordo giornate convulse: la mattina lavoravo sul set con Fellini che mi aveva scelto per il film Intervista, la sera in palcoscenico recitavo il mio testo. Federico mi fece l'onore di venire a vedermi. La pièce piacque anche a Domenico Procacci che mi chiese di farne un film».
Non avevi esperienza di regia cinematografica.
«Mi sentivo un intruso divorato dal senso di colpa. Il film, con mia sorpresa, fu accolto benissimo a Venezia. Mi ripromisi a quel punto che avrei fatto di tutto per migliorarmi».
Accennavi a Fellini. Mi pare che nell'"Intervista" tu interpretavi il giovane Federico.
«Credo che rivedesse nel mio corpo ossuto lui a vent'anni. Prima si accennava a Kafka. Il film racconta l'arrivo di una troupe giapponese che vuole incontrare Fellini che è sul set mentre sta girando America di Franz Kafka».
Secondo te la scelta di Kafka aveva un motivo particolare?
«Penso che Kafka lo interessasse per le potenzialità cinematografiche. Quando Fellini lavorava per la rivista satirica Marc'Aurelio, Marcello Marchesi gli prestò la sua copia delle Metamorfosi. Almeno questo sentii raccontare da Federico. Considerava Kafka molto chapliniano. Qualunque cosa volesse dire, mi pare colga un punto importante: la comicità di Kafka è l'altro lato del tragico».
L'assurdo kafkiano è dopotutto il non poter distinguere il tragico dal comico. Ma perché "America"?
«Credo c'entrasse l'invito che da Los Angeles partì per fargli realizzare un film oltreoceano».
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Che era poi il titolo che Kafka intendeva dare al romanzo.
«Mi fai venire in mente una cosa che riferì Vincenzo Mollica. Era il 1992. Fellini stava già male e sarebbe morto l'anno dopo. Ma non aveva perso del tutto l'abitudine di andare a ristorante. Pare che alla fine di una cena abbia scritto su un tovagliolo: "Disperso tra i dispersi come il mio amato Kafka"».
Ritieni che sentirsi come un naufrago dipendesse dall'insuccesso dei suoi ultimi film?
«Dipendeva dal fatto che una stagione del cinema italiano si era chiusa definitivamente. La stessa malinconica consapevolezza c'era in Ettore Scola e in Francesco Rosi. Con Fellini, per ragioni di importanza, l'impatto fu più traumatico e ne era consapevole. Mi colpì molto una sua frase: "L'ultimo falò dei miei ricordi si è spento con Amarcord". Però un film come Ginger e Fred è di una chiaroveggenza straordinaria su come la televisione pop e degradata aveva minato le basi stesse del cinema».
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Ti sei mai sentito disperso come un naufrago?
«Ho passato la vita cercando di aggrapparmi a ogni cosa mi tenesse a galla e alla fine un'ancora di salvezza è stata l'analisi».
In un paio di occasioni ne hai parlato. C'è un limite al racconto del proprio privato?
«C'è, anche se oggi vedo che è tutto un confessarsi sulla qualunque. Per me l'analisi è stata utile, lo è ancora, e quindi ne parlo senza reticenza».
Perché vi sei entrato?
«Non riuscivo a liberarmi dall'ansia e dall'angoscia. Mi ero separato e avevo la sensazione che tutto quanto di importante avevo avuto dalla storia con Margherita Buy lo stavo perdendo. Io stesso avevo paura di perdermi. Improvvisamente scoprii cosa voglia dire regredire, passare da uno stato di equilibrio e di progettazione a uno di totale insicurezza. Non avevo quarant'anni e mi sembrava di essere giunto al capolinea».
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Su che cosa poggia questa certezza?
«Sull'aver reimparato che esiste una differenza essenziale tra ciò che è vero e ciò che è falso. Ma non riconoscendolo astrattamente bensì nelle scelte che si compiono ogni giorno».
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Anche recitando a teatro?
«Anche, certo. La finzione teatrale è lo strumento che scalfisce la superfice del testo. Ma andare a fondo, scavare con la recitazione, significa cercare il vero. Rompere il patto che l'attore stabilisce con la finzione. Il grande attore, come dicevo, è colui che disimpara il mestiere mostrandosi "nudo" sulla scena».
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Non è difficile immaginare che a qualcosa del genere aspirassero Leopardi e Kafka.
«Era il nudo di cui non dovevano vergognarsi, il nudo della scrittura che andava al di là dei loro corpi. Oltre la magrezza dell'uno e la deformità dell'altro».
Il tuo corpo ha qualcosa di inconfondibilmente scarno e nevrotico.
«Ci convivo e mi riconosco. Ero ingrassato e in questo momento sono a dieta. Non potrei immaginarmi diverso da come sono».
Un problema di identità?
«Di riconquista del reale direbbe il mio analista».
Perché continui ad andare in analisi?
«Forse perché l'analisi è interminabile, perché la guarigione non è un punto finale, ma un percorso o forse perché mi trovo bene con il mio analista junghiano. In una delle ultime sedute mi è accaduto, mentre mi parlava, di addormentarmi per pochi secondi. Ho fatto finta di niente. Sono tornato a casa e poi preso dal rimorso ho deciso la volta dopo di dirglielo».
E lui?
«Mi ha risposto: guardi signor Rubini non è la prima volta che si assopisce. E allora ho pensato che forse vado ancora in analisi per dormire».
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