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DIANE ARBUS, SFRUTTATRICE DEGLI EMARGINATI O POETESSA DEI FREAK? - L’ARCHIVIO DELLA FOTOGRAFA PIÙ CONTROVERSA DEL '900 RIVIVE IN UNA MOSTRA A NEW YORK - NORMAN MAILER: “DARE UNA MACCHINA FOTOGRAFICA A DIANE È COME METTERE UNA GRANATA IN MANO A UN BAMBINO"

DIANE ARBUSDIANE ARBUS

Michele Smargiassi per La Repubblica

 

Accasciato sulla poltrona, gambe aperte, sguaiato. Norman Mailer detestò il suo ritratto quando lo vide pubblicato sul New York Times nel 1963. «Dare una macchina fotografica a Diane», sospirò, «è come mettere una granata in mano a un bambino».

 

Ma Diane Arbus lo aveva appena fotografato, un bambino con una bomba a mano (giocattolo): è una delle sue foto-icone e, se il grande scrittore ha ragione, è quasi un autoritratto delegato.

 

Esplose come una granata davvero, all' inizio degli anni Sessanta, Diana la cacciatrice di esistenze anomale, la poetessa degli eccentrici e dei freak, la gran borghese che scese nella suburra degli emarginati, la stella che brillò per poco più d' un decennio prima di spegnersi, di propria mano, nel 1971, a soli quarantotto anni, all' apice della sua parabola. C' è un altro bambino armato, nell' archivio di Diane.

 

Inedito, sbuca ora dagli scatoloni che, rimasti per trentacinque anni nella cantina di una casa del Village, le figlie Doon e Amy donarono al Metropolitan Museum di New York nel 2007. Minaccioso, imbronciato, punta il revolver contro la fotografa.

 

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A metà degli anni Cinquanta fotografare bambini che giocano a sparare era una mania, celebre fu quella di William Klein, perfino il mite ironico Elliott Erwitt ne fece una. Corea ancora calda e Vietnam nell' aria. Ma Diane non pensava a quello. La politica l' annoiava. Dalle marce per la pace tornava con foto insignificanti. A cosa pensava, Diane? Da mezzo secolo è un mistero.

 

«La fotografia è un segreto su un segreto»: non poteva descriversi meglio. La più controversa fotografa del Novecento, tutti credono di poterla spiegare con manualetti freudiani in edizione Readers' Digest: giovinetta-bene cresciuta a Park Avenue, assetata di brividi da cui un' educazione perbenista l' ha esclusa, si tuffa anima e corpo nel mondo subumano, mossa da una pulsione neanche tanto astrattamente sessuale, fino a restarne vittima. Chiaro no? Susan Sontag liquidò il suo suicidio come «prova che le sue foto erano pericolose per lei» proiettandola nel firmamento nero delle artiste il cui ultimo gesto spiegherebbe tutto, da Marilyn Monroe a Sylvia Plath, da Janis Joplin a Francesca Woodman.

 

Chiaro un accidente. Dal mosaico di lettere, diari, testi, interviste pubblicati cinque anni fa emerge una donna consapevole, colta, perfino iperattiva, pragmatica, ricca di relazioni, ben diversa dalla sua icona tragica. Cosa cercava davvero Diane? Adesso la mostra Diane Arbus: In the Beginning, che il Metropolitan ha ricavato da quegli scatoloni, prova a dircelo tornando alle origini.

DIANE ARBUS DIANE ARBUS

 

Del resto, Arbus è tra i pochi fotografi la cui universale notorietà («Ah, quella delle due gemelline!») sollecita un prequel.

Ed ecco Diane prima di Diane, gli anni incerti dell' esordio, dal '56 al '62, in cui scattò più di metà delle foto della sua vita, ma due terzi restarono inedite - una carriera costellata di rifiuti editoriali.

 

Volendo, non è proprio il beginning. Gli esordi di Diane come fotografa di strada sono più lontani, forse italiani.

Nel 1951 affittò col marito Allan una casetta a Frascati.

 

L' impresa familiare Allan & Diane Arbus, ancora lontana dal divorzio, era in pieno decollo, i coniugi lavoravano a due fotoservizi di moda italiana per Vogue; ma alla domenica, arrivando a Roma con la Ford blu, venivano circondati da ragazzini urlanti, e Diane cominciò da loro.

 

Come più tardi i suoi freak, li trovava «portatori di segreti». Ma fu nel 1956, quando andò a lezione dalla sua grande ispiratrice Lisette Model, che scrisse su un rullino: #1. Arbus begins.

La poetica della proto-Arbus è fluida, l' estetica divagante. Evita il contatto, scatta da lontano poi ritaglia, il quadrato della Rollei non è ancora il suo marchio di fabbrica, usa una Nikon 35 millimetri e inquadra quasi sempre in verticale, il formato dello standing, dell' affrontamento, Viaggio verticale sarà il suo lavoro di esplorazione della città dagli attici alle cantine, dal lusso all' abiezione.

 

Più che cercare trova, i soggetti le vengono incontro come bachi sulla buccia della Grande Mela e lei li prende al volo. Nel '58 Robert Frank, suo amico, demolisce con un solo libro, The Americans, la fotografia umanistica «con quei maledetti foto-saggi che hanno un inizio e una fine».

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I nuovi street photographer non mettono più le brache al mondo - semmai gliele tolgono. Ma Diane non è come i dioscuri Friedlander e Winogrand con cui condividerà il debutto al MoMA nel 1967. La fauna umana di Central Park, di Coney Island, di Washington Square entra nel suo carniere, ma ancora nulla che non sia già anche in quelli di Wegee, o della Levitt, o se per questo (ma lo sappiamo da poco) della bambinaia Vivian Maier. Quelle di Diane prima del 1961 sono ancora foto tentative, sperimentali.

 

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Si convince però a cercare «le cose che nessuno vedrebbe se non le fotografassi». Il primo impatto con i freak, una compagnia di nani, nel retro di un circo. Comincia a pensare che i deformi siano «i veri aristocratici, nati col loro trauma, hanno già superato il test della vita».

 

Propone a Esquire (che viste le foto lo rifiuterà) un servizio sugli eccentrici, intesi come «quelli che credono in cose impossibili per gli altri», pirandelliani «personaggi in cerca di una storia»: lei può dargliela. Basta foto rubate, nella sua nuova gabbia quadrata (il formato della stabilità ma anche della claustrofobia) i suoi personaggi entrano volontariamente, immobili, in posa, ricambiano lo sguardo.

 

Ma da qui in poi è l' Arbus che conoscono tutti - che credono tutti di conoscere. La cinica o l' empatica, la voyeur o l' amica, la sfruttatrice degli emarginati o la poetessa dell' individuo? Neanche lei l' ha mai saputo spiegare. Ai suoi eccentrici si avvicinava tremando, fingendo sentimenti di amicizia per conquistarsene la fiducia:

 

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«Sono sempre un po' troppo carina con loro». In realtà li accostava «con un misto di vergogna e terrore», rabbrividendo: «Non vorrei somigliare a loro. Non vorrei che le mie figlie somigliassero a loro». Una «collezionista di farfalle», o forse di fiori carnivori, consapevole che «essere fotografati fa sempre un po' male», che lo scambio è asimmetrico, che la sua fotocamera prende ai loro soggetti qualcosa di più di quello che loro vorrebbero darle: «Sono in debito con tutti coloro a cui ho rubato qualcosa».

 

Ma l' Arbus prima di Arbus non è solo una curiosità artistico- biografica. Le transizioni sono importanti: legano una partenza e un arrivo. Si parte dalla prima foto pubblicata da Diane, un colpo grosso, scelta da Edward Steichen per The Family of Man, la celeberrima mostra al Mo-MA del 1955, apoteosi della fotografia umanista. Dieci anni dopo, in un' altra mostra al MoMA, Diane distruggerà quell' utopia mostrando i figli reietti della grande famiglia dell' uomo (ogni mattina Yuben Yee, archivista del museo, doveva pulire con lo straccio il vetro delle sue foto dagli sputi dei visitatori).

 

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Ma guardiamo il quadro di quel decennio cruciale nella storia americana, e non solo una carriera. In quel decennio si incrina l' American Way, il paternalista paese-guida del piano Marshall diventa il gendarme del pianeta. Fotografia della disillusione è quella di Diane, fotografia della fragilità morale del mondo dopo le utopie di pace universale. Che questa disillusione affondasse nella fragilità di una singola esistenza, la sua, forse era inevitabile, forse è solo una coincidenza.

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