ARTSPIA - PIU' CHE WARHOL GIAPPONESE UN DISNEY POSTATOMICO. MURAKAMI PORTA A MILANO IL SUO PRIMO FILM E LA SUA ULTIMA PRODUZIONE - ADDIO AI CARTOON, ORA CI SONO I DEMONI CHE CI PROTEGGONO DAGLI ORRORI DEL MONDO (VIDEO)
Video di Veronica Del Soldà per Dagospia
Takashi Murakami a Milano
1. MURAKAMI, RE DEI MANGA
Alessandra Mammì per Dagospia
Murakami promuove Jellyfish-Eyes a Dallas
takashi murakami 312 red demon and blue demon with 48 arhats, 2013
“Non giudicatemi da questo cappello in testa. L'ho messo perché oggi qui proiettano il mio primo film “Jellyfish Eyes”. Nella vita vesto Armani e sono un uomo molto serio”.
Così: con cappello bianco e rosa a forma di medusa spiaccicato sulla fronte, Takashi Murakami si presenta a Palazzo Reale, in conferenza stampa del “Ciclo di Arhat”. Prima mostra italiana dell'artista superstar, curata (e voluta) da Francesco Bonami, tenuta fin troppo sottotono e troppo poco perché già chiude il 7 settembre (il proverbiale understatement delle istituzioni milanesi qui ha davvero esagerato).
Quest'ultima produzione del più famoso artista giapponese vivente, lì nella sala della Cariatidi che crea un fascinoso cortocircuito, più la proiezione del suo primo film in anteprima europea e persino la presenza con cappello da Jelly Fish del neo-regista che annuncia l'arrivo anche del sequel (“Jellyfish 2” ha già pronto il suo trailer) , in qualsiasi altro luogo del mondo sarebbe stato evento da tappeto rosso. In Italia invece sembra un appuntamento per appassionati filatelici.
takashi murakami 354 standing on the bridge linking space and time, 2014
Comunque anche senza red carpet, Murakami è qui. Con il suo sguardo serio e persino malinconico come da chi è nato nel 1962 a Tokyo, solo grazie a una notte di nebbia che il 9 agosto 1945 protesse la cittadina di Kokura (e la sua mamma che viveva lì ) dirottando la Bomba su Nagasaki.
“Takashi tu sei molto fortunato se Kokura fosse meno nebbiosa oggi non saresti qui”, è il ritornello che si è sentito dire da nonne e zie che gli accarezzavano la testa. Per questo la Bomba con annessi e connessi gli è entrata nella testa e l'ha trasformato in un tipico otaku, ragazzo nerd schiavo dei manga e innamorato della tradizione.
La bomba gli entrata in testa da piccolo e ne è uscita da grande sotto forma di un'immaginario complesso, apparentemente ludico, strutturalmente tragico, intimamente nipponico.
Superflat è la formula. Piatta come le stampe dell' Ukiyo-e, infinita come antichi rotoli di pergamena. Una superficie liquida dove tutto accade, abitata da mostriciattoli e creature strabiche perché ( come ebbe lui a dire) gli occhi diritti e centrati in un punto sono quelli occidentali allenati dalla prospettiva a punto di fuga centrale.
La scultura Buddha- Murakami a Doha
Lo strabismo giapponese del Superflat vede contemporaneamente destra e sinistra, e si infiltra in quel luogo di frontiera dove l'horror sfuma nel carino (Kawaii) e il carino nell'horror. Margherite canterine con occhi e bocca; pupille che si moltiplicano su tele grandi e sempre più grandi come carte da parati; creature nate per essere minute che diventano sculture dalle dimensioni gigantesche.
Takashi è un ragazzo fortunato. Non solo perché é un sopravvissuto alla Bomba, ma perché è l'interprete più potente di un'intera generazione. Quella che si è nutrita di computer e manga da cui arriva un immaginario misto tra il pop e l'arte del periodo Edo.
takashi murakami 311 69 arhats beneath the bodhi tree, 2013
E lui a differenza dei suoi coetanei nerd, è l'unico che è riuscito a evadere dalla cameretta per produrre non solo un 'iconografia tutta nuova ma costruire una vera e propria fabbrica di pupazzi, gadgets, cartoni animati. Una factory piena di artisti tanto che subito il povero viene etichettato dal mondo come il Warhol giapponese. Come Andy e più di Andy, artista Pop e imprenditore, eclettico, multiforme e capace di brandizzare ogni cosa gli capiti fra le mani. E se c'è un ancora posto per Warhol in un mondo così contaminato, quel posto ( è vero) spetta di diritto a Takashi Murakami.
Ma a differenza di Warhol, Takashi non è circondati da rockettari strafatti. Nella sua company Kaikai Kiki Co. nata nel 2001 da un più artigianale laboratorio ( l'Hiropon Factory) e che conta due sedi a Tokyo e una a New York, l'efficienza è tutto. Semmai con Warhol ha in comune questo pessimismo smaltato di colori eccitati, con cui entrambi ricostruiscono un mondo. Speculare al nostro in Warhol. Onirico e immaginario in Murakami.
“L'arte serva a consolare e ha chetare le nostre paure” ha detto, innalzando a Doha cento metri di pittura in un murale infinito che ha chiamato “la sua Guernica”. E' il Murakami del dopo Fukushima . La tragedia che ha vissuto davvero. Non quella che gli fu inculcata da piccolo dalle carezze in testa delle zie, ma la nuova radioattiva catastrofe che colpisce ancora il suo paese nel corpo e nell'animo.
La grande onda della distruzione fa rinascere nuovi Godzilla e polimorfi amici immaginari che sono poi i protagonisti di “Jellyfish Eyes”. Mentre l'artista invoca la presenza di Cinquecento Arhat che con i loro occhi strabici ci proteggano dal male. Guardiani, monaci, demoni benefici, divinità minori. Bruttissimi e buonissimi.
takashi murakami 272(1) oval buddha silver, 2008
A Doha come a Milano lì, al confine fra sogno e incubo, quasi scolpiti negli smalti, elettrici nei colori, buffi nelle smorfie, pronti a calmare le nostre paure. “Cercate, cercate e sceglietene uno. Sarà il vostro Araht” dice Murakami. “Piccolo e peloso o grande e sdentato vi aiuterà a sopravvivere, perché quando il mondo è in pericolo è allora che abbiamo bisogno di creare mostri”.
2. E' IL FILM DELLA FUKUSHIMA GENERATION
Marco Giusti per Dagospia
personaggio di "Jellyfish Eyes"
Kurage-bo è una specie di gremlin con la capoccia viola che si apre tipo medusa, Luxor è un pelosone di due metri e mezzo praticamente senza occhi, Yupi è una sorta di salamandra cattivuccia, Shimon ha sei zampe e un blocco d’acciaio al posto della capoccia che usa come martello, Miss Ko2 è una gigantessa bionda che si è già fatta qualsiasi Biennale e mostra d’arte internazionale, Oval è una sorta di incrocio tra Godzilla e Moby Dick alto quaranta metri e pieno di occhi, ma uno solo lo stenderà per sempre.
In tutto sono un centinaio di mostri, tutti ideati dal geniale Takashi Murukami per il suo primo lungometraggio per il cinema, costruito fra animazione e riprese dal vero, “jellyfish eyes”, un delirio che abbiamo visto a Milano come accompagnamento alla mostra del maestro Murakami, oggi uno degli artisti più amati dalla critica internazionale, una sorta di Maurizio Cattelan giapponese, che si avvicina così al mondo dei manga e del cinema in modo niente affatto da neofita.
Infatti ha già in preparazione un “jellyfish 2” e un nuovo film da girare in batteria. Non solo. Ha pronto, come un Walt Disney o un Damien Hirst qualsiasi, tutto il merchandising di pupazzi, magliette, camicie da vendere nei banchetti dei cinema e dei musei che esporranno le sue opere. Lui stesso si presenta con una camicia piena dei suoi mostri e mezzo mostrone di peluche rosa in testa come cappello.
La scultura Buddha- Murakami a Doha
Non illudiamoci però che il film sia solo una galleria di mostri animati in digitale o pelosauri con l’uomo dentro per dare sfogo a Murakami di disegnare i suoi cento mostri. “jellyfish eyes” non si fa mancare nulla dell’opera del maestro e del Giappone contemporaneo. Il ragionamento d’amore per i manga e per gli yokai, i mostri storici della letteratura e della pittura giapponese, ma anche per la saga di Godzilla e i capolavori di Miyazaki, la grande ombra di Fukushima e il disastro che l’aver puntato tutto sulla ricerca scientifica e sugli esperimenti di laboratorio con il nucleare ha provocato al paese, una sorta di tristezza per il dopo-Fukushima, con i bambini orfani che devono ricostruirsi una vita senza figure paterne.
E’ così che a ogni bambino si associa, quasi magicamente, un amico di fantasia, un F.R.I.E.N.D., comandato grazie al cellulare, anche se al protagonista, il piccolo Musashi, che cerca di rifarsi una vita con la mamma in periferia, il buffo Kurage-bo, affamato di dolcetti gommosi, si palesa senza bisogno di nessuna connessione. Musashi rifiuta qualsiasi forma di violenza e trova in Kurage-bo il suo compagno di giochi e nello zio Naoto, che lavora in un misterioso centro di ricerche scientifiche, una sorta di nuovo personaggio paterno. Ma Naoto è in qualche modo schiavo dei Quattro Incappucciati Neri, dei cattivi che vogliono convogliare le energie negative dei bambini per costruire dei mostri sempre più abnormi. E Musashi, a scuola, trova un gruppo di bambini che lo maltrattano da bulletti grazie ai loro F.R.I.E.N.D.S. e solo Kurage-bo lo può difendere.
Un delirio. Che vedrà i Quattro Incappucciati Neri sempre più cattivi pronti a dar vita al mostrone di 40 metri che terrorizzerà. Come un neo-Godzilla, il centro abitato e i bambini che si uniranno, alla fine, assieme ai loro mostri, per salvare la città e il loro amichetto Musashi. In tutto questo, Murakami si lancia in grandi invenzione di cinema, come il sogno della grande ombra di Fukushima, sintetizzata nell’affiorare delle meduse viola sullo specchio di un mare tranquillo, la figura del padre di Musashi con il cellulare in mano e la grande onda che si forma alle sue spalle.
O il grande mostro Oval che viene affrontato da Musashi e Kurage-bo come fosse Moby Dick. Difficile definire cosa sia esattamente questo film, più vicino a certi film per bambini di Takashi Miike che non a un film d’arte, certo è che è un’opera piena di invenzioni e di complesse citazioni al cinema che Murakami ama, alla sua arte e agli stessi manga. Imperdibile.
"Jellyfish-Eyes"Murakami Girltakashi murakami 326 100 arhats, 2013 Murakami promuove Jellyfish-Eyes