“BIG EYES” - QUANDO L’ARTE CHIUDEVA LE PORTE DELLE GALLERIE ALLE DONNE E MARGARET KEANE FU COSTRETTA A CEDERE L'INTERA SUA PRODUZIONE AL MARITO CHE CI COSTRUÌ SOPRA UN MEGA BUSINESS – UN FILM DI TIM BURTON
1. "NEI GRANDI OCCHI DELLA KEANE RIVEDO IL MIO LATO PIÙ OSCURO"
Carlo Bizio per "il Giornale"
Non è una coincidenza che la storia di Big Eyes, centrato sulla bizzarra relazione coniugale e artistica tra Walter e Margaret Keane, abbia inizio nel 1958, l'anno in cui il regista del film Tim Burton è nato. Tra l'autore di ‘’Edward Mani di Forbice’’, Ed Wood e il più recente Dark Shadows, e la figura di Margaret Keane (Amy Adams nel film) - e le sue figure, quei bambini ritratti con enormi occhi melanconici, spaventati, con un che di alieno - c'è sempre stata un'affinità elettiva. «Ricordo i suoi quadri quando ero piccolo, quei ritratti strani erano dappertutto», ricorda Burton in un nostro incontro a Santa Monica. Big Eyes è uscito in America il giorno di Natale.
«Nei primi anni '60 quei lavori erano diventati la più eccelsa rappresentazione del kitsch nell'arte popolare, adorata sia dalla critica che dalle masse: fu la prima volta che l'arte veniva venduta in forma di poster anche nei supermercati. Andy Warhol legittimò la Keane dicendo, con uno dei suoi paradossi tautologici: “Beh, se piace tanto alla gente vuol dire che un valore artistico ci dev'essere... se piace non può essere brutto”».
Il guaio fu che per decenni la firma Keane stava a significare Walter, non Margaret. Lui, non lei. Il film racconta infatti come Walter Keane (Christopher Waltz), abile promotore e innato uomo di marketing fosse riuscito a convincere la moglie Margaret a cedergli il credito dei suoi dipinti, insistendo che ai compratori non interessava «l'arte delle donne», e che se lei si fosse prestata al trucchetto avrebbero fatto soldi a palate.
Così fu (la serie Big Eyes era esposta dovunque, negli anni '60 in Usa), fino a che, una decina d'anni dopo tremende repressioni e frustrazioni, Margaret, dopo aver divorziato dal manipolatore Walter, decide di parlare. Il caso finisce in tribunale. Nonostante il giudice abbia dato ragione a Margaret, Walter ha insistito fino alla sua morte, avvenuta nel 2000, che quei dipinti provenivano davvero dal suo pennello (si sospetta ancora che non sapesse dipingere nulla).
Mister Burton, un film che parla di arte, della casualità del successo artistico ma anche di una relazione umana molto distorta, vero?
«Tutto questo, certo. È una sorta di Invasione degli ultracorpi affettiva, che esamina come una persona si lasci possedere dalle manifestazioni di un'altra. Da una parte c'è il bisogno disperato di Walter di ottenere il successo e l'adorazione per un talento che non ha; dall'altra c'è l'auto-sacrificio di Margaret e una forza interiore che le permette di tacere controvoglia, finché sbotta».
Si identifica con uno dei due o con entrambi?
«Questo è il bello del dare forma a diversi personaggi. Ti identifichi con tutti, anche se te ne vergogni. Ci sono aspetti di Margaret con cui mi riconosco, ma sfortunatamente mi identifico anche con alcuni aspetti di Walter, i peggiori».
Lei ha detto di aver sentito una connessione personale con questa storia. Si spiega?
«Prima di tutto perché, come dicevo, quei ritratti erano dovunque al tempo della mia infanzia a Burbank, in California. Ma ho provato anche un senso di intima familiarità col personaggio di Margaret così com'è stato scritto sulla pagina, comunque fedele alla vera persona. Quando ero bambino parlavo a malapena. Non ero un comunicatore. E mi affascinavano le persone capaci di parlare. Margaret parla poco, mentre Walter è un abile oratore, e da qui sorge la nevrotica dinamica tra i due, un connubio tra opposti. Il caso bizzarro di due persone diverse che diventano una strana cosa singola, una forma di vita ibrida, Keane... Margaret è una personalità non verbale, come me. Non è capace di farsi valere con la parola. Si esprime con le sue tele, lascia che sia la sua arte a parlare per lei. Io funziono allo stesso modo».
Ha conosciuto la vera Margaret Keane?
«Certo. Oggi ha 87 anni, continua a dipingere, è una donna molto discreta, introversa, gentile. Continuo a essere un suo ammiratore. Le abbiamo mostrato il film e le è piaciuto molto, e questo mi rende felice. Ma per una donna schiva come lei ripercorrere tutto quel calvario non dev'esser stato facile. Le ho commissionato un ritratto, e ha dipinto mia moglie (Helena Bonham Carter, si dice si siano separati ndr) e i nostri due figli, tutti con gli occhi enormi, ovviamente, e in maniera un po' inquietante c'è una vaga immagine di me tra le nuvole. Chissà se la Keane ha visto in me qualcosa di Walter, o semplicemente mi vede semplicemente come uno... sempre tra le nuvole».
2. AMATISSIMA DAL PUBBLICO MA NON DAGLI ADDETTI AI LAVORI. ANDY WARHOL STORCEVA IL NASO
Luca Beatrice per "il Giornale"
Negli anni Cinquanta le donne artiste si contavano sulle dita di una mano anche in America, nonostante la spinta verso il nuovo che così tanto colpi le avanguardie europee. La scultrice Louise Bourgeois dovette attendere decenni prima di mostrare le proprie opere. Lee Krasner, moglie di Jackson Pollock, fu costretta a cambiare il proprio nome Eleanor per non soccombere in un mondo di uomini.
Ma il caso più interessante, almeno dal punto di vista dell'emancipazione femminile, è proprio quello raccontato da Tim Burton nel suo nuovo film Big Eyes: per anni la pittrice Margaret Keane fu costretta a cedere l'intera sua produzione al marito Walter il quale ci costruì sopra un mega business economico, fino a stancarsi del sopruso e ottenere un rimborso milionario dallo stesso coniuge.
Dal punto di vista meramente artistico la Keane rappresenta il tipico esempio di pittore molto popolare, amatissima dal pubblico ma indifferente alla critica e agli addetti ai lavori. E in America di episodi come il suo ce ne sono molti, proprio perché non esiste una tradizione classica cui far riferimento.
Nata nel 1927 a Nashville, Margaret va a vivere a San Francisco negli anni Cinquanta e si sposa per la seconda volta con quello che sarà il suo «aguzzino». Dopo aver risolto i problemi si trasferisce alle Hawaii e ancora oggi continua a dipingere quei tipici ritratti dagli occhioni profondi e intensi che sono diventati il segno distintivo della sua arte. Espone in diversi musei importanti ma non è mai entrata nel giro delle gallerie che contano.
Diversi divi hollywoodiani, da Joan Crawford a Natalie Wood, le hanno commissionato un dipinto e Woody Allen la considera una delle migliori pittrici viventi. Andy Warhol, invece, ha sempre storto il naso di fronte al suo successo, spiegandoselo come un fenomeno popolare di massa.
Aldilà della rilettura quasi mitica che ne da Tim Burton, si può notare oggi l'influenza della Keane sulle nuove generazioni di pittura pop surrealista altrimenti nota come «Low Brow», tipica della west coast americana: un'arte che unisce il fumetto all'illustrazione di matrice folk, a lungo ignorata dal sistema e finalmente diventata un'alternativa alle gallerie newyorkesi grazie al capillare lavoro di riviste e spazi indipendenti.
In particolare la Keane sembra la «mamma» di Marion Peck, raffinata pittrice peraltro sposa del più celebre Mark Ryden, costoso e ricercato anche a Manhattan, ma certamente meno ingombrante e tirannico del cinico Walter, interpretato sul grande schermo dal bravissimo Christopher Waltz.