“MIO FIGLIO MATTIA ACCUSATO DI STUPRO? È UN’ACCUSA INFAMANTE, SE FOSSE VERA SAREI ANDATO IO IN GALERA” - CRISTIANO LUCARELLI, ALLENATORE ED EX CALCIATORE, PORTA AVANTI LA BATTAGLIA IN DIFESA DEL FIGLIO CONDANNATO IN PRIMO GRADO A TRE ANNI E SETTE MESI PER STUPRO DI GRUPPO – “LUI È DEVASTATO MA LOTTA COME UN LEONE. NON HA LA MIA SCORZA, CERTO. IO HO DOVUTO IMPARARE A ESSERE COSÌ. FINO A 17 ANNI ERO UN BUONO. POI SUCCESSE UNA COSA...”
Monica Scozzafava per corriere.it - Estratti
Cristiano Lucarelli, il suo primo ricordo da bambino?
«Mio padre che si alza presto al mattino, prende il camion per andare a lavorare. Provavo da piccolo la sensazione dell'uomo che doveva fare sacrifici per mantenere la famiglia. Le rinunce, le sofferenze...».
Cristiano Lucarelli, 49 anni, allenatore ed ex calciatore, non è uno che ci gira attorno, si è sempre esposto. Da due anni porta avanti la battaglia giudiziaria per suo figlio Mattia, 25 anni, condannato in primo grado a tre anni e sette mesi per stupro di gruppo.
L'accusa, l'arresto, il processo, la condanna: come si fa a gestire tutto questo in una famiglia?
«La mia famiglia è a pezzi. Lo stupro è un'accusa infamante, la peggiore. Ma se per quanto riguarda me posso considerarlo un enorme ostacolo che la vita mi ha messo davanti e che sono certo di superare, il problema è un ragazzo di 25 anni che non potrà più far niente per i prossimi 10-15 anni. Una vita congelata. Chi ti considera con un carico così pesante?».
Lei è papà anche di una figlia femmina, possibile non sia mai stato sfiorato dal dubbio?
«Conosco mio figlio ma ho comunque voluto capire leggendo ogni pagina del processo. Se Mattia avesse indotto quella ragazza a fare qualsiasi cosa, le assicuro, sarei stato capace di finire io in galera... per altro però. Nella vita io sono quello che ha preso botte dalla moglie... So cosa abbiamo insegnato ai nostri ragazzi, sappiamo i valori che ci sono in casa nostra. Conosco la sensibilità di Mattia, siamo una famiglia aperta, ci diciamo tutto. I ragazzi, anche se fanno cazzate, e ci può stare, corrono a casa e parlano. Quella sera sapevo da subito dov'era stato e cosa aveva fatto Mattia. Sapevo la verità, quella che ancora non è venuta fuori».
Intanto c’è una condanna che ha stabilito un’altra verità…
«Sentenza che va rispettata, ma che noi contrasteremo con tutte le nostre forze nei modi consentiti dalla legge. So che Mattia non ha fatto nulla di ciò che gli viene imputato. Ho letto con attenzione gli atti processuali per farmi un'idea diversa da quella che invece è stata anche data in pasto ai giornali nella fase delle indagini. Almeno per avere un dubbio sulla sua colpevolezza rispetto a un’accusa difficile anche da capire.
Prima era accusato di avere costretto la ragazza a fare cose che non voleva, poi è stato detto che la ragazza le voleva ma la sua volontà è stata indotta. Per rispetto del processo e delle persone coinvolte abbiamo deciso di mantenere il massimo riserbo sugli elementi emersi nel corso delle indagini, però le assicuro che ci sono una serie di contraddizioni che spero possano essere riconosciute nei gradi successivi».
Non è arrabbiato con suo figlio?
CRISTIANO LUCARELLI DIFENDE IL FIGLIO MATTIA
«Ho tanta rabbia. Mi sembra incredibile che non si possa essere sfiorati dal dubbio rispetto a una versione di chi prima dice di non essere stata ubriaca e dopo nove mesi si ricorda di esserlo stata e che sei ore dopo la tremenda esperienza di uno stupro di gruppo ha un rapporto sessuale con un uomo, salvo poi dire alla Polizia di non avere voluto avere rapporti con i ragazzi imputati perché era fedele al suo fidanzato che stava in America».
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Mattia come vive la situazione?
«È devastato ma lotta come un leone. Non ha la mia scorza, certo. Io ho dovuto imparare a essere così. Fino a 17 anni ero un buono. Poi successe una cosa...».
Cosa?
«Vidi dei ragazzi del mio quartiere che per gioco mettevano dei gatti in una busta di plastica, ridevano nel vedere quei piccoli dimenarsi. Li stavano soffocando. Fu quella la mia prima ribellione, siamo animalisti e in casa abbiamo sempre convissuto con cani e gatti. Ma al di là di questo, stavo assistendo a un omicidio. Mi opposi con tutte le forze».
Lucarelli, 240 gol in carriera ma mai in un top club. Perché?
«Si è parlato sempre di più delle mie idee fuori dal campo che di quello che facevo dentro al campo: la mia vita privata, le mie simpatie politiche più importanti dei miei gol. E non sono mai stato neanche un militante. Sono passati trent'anni e l'argomento principale resta quello. Oggi con tre gol i calciatori vanno al Mondiale, io con i miei numeri i Mondiali li ho sempre e solo guardati in tv. A parità di bravura le società decidevano di puntare sempre sul calciatore meno scomodo, che creava meno problemi».
Esultava mostrando la maglia del Che, è stato questo un problema? La fama del comunista mai pentito, del ribelle?
«È successo una volta sola. Ho giocato nella mia città e quella maglia era un simbolo della Curva Nord. Avevo 20 anni e non pensavo che questo gesto facesse parlare così tanto. Poi non è che lasciavo gli allenamenti per andare alle manifestazioni o nei centri sociali ma la narrazione era questa.
Mi è anche capitato che qualche presidente, conoscendomi, mi dicesse che non credeva che fossi un professionista così esemplare. Il Che è stato una ispirazione: uguaglianza, solidarietà, senso di giustizia. Ognuno ha le sue idee, tutte rispettabili credo. Come gli orientamenti sessuali o religiosi. Non è un peccato interessarsi della vita che è fuori dal campo. A volte sento dire che i calciatori sono poco intelligenti, dicono cose scontate. Vero anche che da loro noi non vogliamo sentire altro. Chi parla di cose che accadono fuori viene criticato».
Cresciuto a Shanghai, quartiere popolare e, si può dire, anche malfamato di Livorno.
«I casermoni popolari, la sopravvivenza, la povertà e anche le partite per strada con i cappotti messi sui sassi per fare le porte. Il pallone era l'unico gioco che potevamo permetterci, non avevamo grandi risorse economiche. Mio padre al lavoro fino a sera, mia madre a casa. Poi a 17 anni sono andato via la prima volta. La mia famiglia è rimasta lì fino a quando sono andato allo Shakhtar Donetsk, poi li hanno sfrattati».
Per quale motivo?
«Messi fuori casa perché accusati di truffa allo Stato. Erano case popolari, i miei genitori dopo 30 anni non ne avevano più diritto. Io e mio fratello ogni mese facevamo loro una donazione, già tassata dai rispettivi club di appartenenza, per farli vivere serenamente, ma accadeva da sempre. All'improvviso hanno imputato ai miei genitori il fatto che non avevano dichiarato quelle donazioni».
Ha guadagnato molto?
«Sì abbastanza per quei tempi ma non ha mai fatto una grande differenza per me. Rinunciai a un miliardo di lire per il Livorno, il sogno di mio papà. A parte questo esempio ho scelto le squadre dove potevo giocare, non fare la terza o quarta scelta».
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