
“IL CICLISMO ANNI OTTANTA? ANNI BRUTTI, CIRCOLAVANO PERSONAGGI DA PAURA, PRATICONI E SANTONI, MASSAGGIATORI CHE GIOCAVANO A FARE I MEDICI. TANTE CORSE VENIVANO DECISE A TAVOLINO” – ROBERTO VISENTINI SVELENA SUL MONDO DELLE DUE RUOTE: “FIDARSI ERA PERICOLOSO. E IO, PER CARATTERE, MI FIDAVO. NE HO PRESE DI FREGATURE” – IL GIRO “REGALATO” A SARONNI E QUELLO PERSO PER IL TRADIMENTO DI ROCHE: “SO CHE HA AVUTO PROBLEMI CON IL FISCO: SE LI MERITA. NON HA MAI DIVISO I PREMI CON I GREGARI”- VIDEO
Marco Bonarrigo per Corriere della Sera - Estratti
Roberto Visentini, quando lei lasciò il ciclismo il quotidiano francese l’Equipe scrisse: «Di famiglia benestante, corridore dal talento sconfinato e mai completamente espresso. Dominò il Giro d’Italia 1986 dopo essere arrivato secondo nel 1983 quando un regolamento assurdo regalò la vittoria a Giuseppe Saronni. Perse anche quello del 1987 per il famigerato “tradimento di Sappada” da parte del compagno Stephen Roche».
«Non hanno aggiunto che amavo le belle donne, le macchine potenti e la dolce vita.
Lo scrivevano in tanti. Famiglia benestante, fa ridere».
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Quella diventò l’attività di famiglia.
«Le Onoranze Funebri Visentini stanno per compiere cento anni. Papà prima affiancò e poi rimpiazzò nonno. Da bambino sapevo che sarebbe stato anche il mio lavoro».
Perché?
«Lo sentivo: a tuo agio con la morte ci devi nascere. Sapevo che il ciclismo sarebbe stato provvisorio. Quella della famiglia benestante è una balla: già con i primi stipendi guadagnavo più di papà».
(…) Per i perbenisti del ciclismo ero il figlio di papà che amava la bella vita, una pecora nera tra i corridori-contadini che andavano per la maggiore».
Che anni erano, quelli?
«Anni brutti, si fidi. So poco del ciclismo di adesso ma invidio chi corre: ci sono manager capaci, bravi allenatori, fisioterapisti qualificati. All’epoca circolavano personaggi da paura, praticoni e santoni, massaggiatori che si improvvisavano infermieri, infermieri che giocavano a fare i medici, meccanici che oltre a preparare i panini decidevano le tattiche di gara. Tante corse venivano decise a tavolino. Fidarsi era pericoloso. E io, per carattere, mi fidavo. Ne ho prese di fregature».
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Lei ha vestito la maglia rosa per 27 giorni complessivi nelle dodici edizioni del Giro a cui ha partecipato, siamo ai livelli di Coppi, Girardengo e Indurain.
«Arrivai secondo nel 1983 dietro a Saronni. Per far vincere lui e Moser, popolarissimi al contrario di me, l’organizzatore Torriani s’inventò abbuoni mostruosi di 30, 20 e 10 secondi per i primi tre di ogni tappa. Io guadagnavo tempo in salita, Beppe accumulando abbuoni. Senza quel regalo avrei vinto a mani basse».
Si rifece nel 1986.
«Battendo proprio Saronni, Moser e Lemond. Non ce n’era per nessuno».
Poi il fatidico 1987.
«Dobbiamo tornarci sopra? A metà Giro, dopo la cronometro di San Marino, avevo quasi tre minuti di vantaggio sul mio compagno Stephen Roche. Stavo da dio. Due giorni dopo, nella tappa di Sappada, Roche uscì dal gruppo per inseguire una fuga insignificante. Un tradimento, una bestemmia tattica. Mi abbandonarono i gregari, mi abbandonò l’ammiraglia dove al comando c’era Davide Boifava, team manager senza polso. Rimasi alla deriva in maglia rosa, i corridori delle altre squadre che mi compativano allibiti. Moser mi disse: “Devi spaccare la faccia a tutti”. Persi sette minuti e il Giro».
La sua versione dei fatti?
«Tradimento studiato a tavolino. Volevano un vincitore straniero per interessi di sponsor e Roche era un tipo disposto a tutto».
Con lui, che quell’anno vinse anche Tour e Mondiale, non vi siete mai più parlati, vero?
«Per fortuna sua ci tennero separati. Non l’ho più visto e non lo voglio più vedere. So che ha avuto problemi con il fisco: se li merita. Che io sappia non ha mai diviso i premi con i gregari».
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È mai esistito il Visentini fighetto, quello che dopo il Tour de France faceva sci nautico sul Garda mentre sui giornali spopolavano le foto del Moser contadino che zappava la vigna a Palù?
«Io non l’ho mai conosciuto».