PECHINO DETTA ANCHE I CANONI ESTETICI - XI JINPING “SQUALIFICA” LE CALCIATRICI BIONDE: DEVONO AVERE LA TINTA NERA E NIENTE MECHES, DECOLORAZIONI O COLPI DI SOLE (GLI ATLETI PROFESSIONISTI, INVECE NON POSSONO MOSTRARE TATUAGGI) - E CHI NON SI ADEGUA AI CANONI CINESI VIENE ESCLUSO DAI TORNEI - DA QUANDO IL CALCIO HA UN PESO GEOPOLITICO NELLE STRATEGIE CINESI, POLITBURO VUOLE RENDERLO STRUMENTO DI PROPAGANDA
Giulia Zonca per “la Stampa”
Per giocare bisogna avere i capelli neri. La regola è capricciosa così come sembra, sbucata in mezzo a molte altre nel codice di comportamento destinato a chi vuole rappresentare la Cina. In qualsiasi modo, anche su un campo da calcio universitario dove le ragazze con la tinta vengono squalificate. Niente colori strani, proibite le meches, per non parlare dei colpi di sole, severamente osteggiati gli schiarimenti, vade retro la decolorazione, i ciuffi vivaci e soprattutto il rosa che spopola nel calcio femminile perché lo porta Megan Rapinoe: campionessa mondiale, Pallone d’oro e faccia di ogni ribellione.
Lei si è messa in ginocchio contro la discriminazione, si è presentata in tribunale per la parità di salario, si è votata al fucsia per mettere un accento che ora in molte replicano, richiamano e omaggiano. Ma la Cina oggi ha un solo punto di riferimento concesso, il presidente Xi Jinping che pretende un immagine sobria, soprattutto unica, standardizzata.
La studentessa media è nera, liscia e così deve restare, la massa così deve passare, per dare l’idea di un popolo ubbidiente e giudizioso. Il divieto è recente, scritto in un regolamento più fresco del colore sulle ciocche. Un paio di settimane fa il primo arbitro zelante ha deciso di appellarsi al cavillo, la centrocampista striata di rosa è rimasta in tribuna per punizione e la notizia ha viaggiato veloce su Weibo, il social più diffuso in Cina.
Quasi tutte le colleghe impegnate nel torneo in corso hanno cercato di levare le sfumature della testa, non tanto per evitare guai, quanto per giocare. Si sono ripresentate senza code striate e frange punk, più o meno uniformi, solo lontane dal nero naturale e l’incontro tra Fuzhou e Jimei è saltato.
Una squadra ha accusato l’altra di essere fuori protocollo: rivendicazioni e dita puntate fino a che non è scattata la contestazione su ogni singola acconciatura. Le scampate al giudizio universale erano meno di sette per parte, sotto il numero legale. A casa. Per l’ultima sfida della competizione tutte, nessuna esclusa, si sono tinte di nero. Un trucco per tornare alle origini, una facciata che viene via con il tempo e ben rappresenta questo regime impegnato a essere insieme globale e autarchico.
Da quando il calcio ha un peso nelle strategia di Stato, ha anche una linea da seguire. I professionisti non possono mostrare tatuaggi, hanno diritto alla convocazione in nazionale solo se li coprono. Maniche lunghe, bendaggi e poco importa se la norma si scontra con nomi che ormai si sono disegnati collo e mani, se spesso sbuca la coda di un drago da un polsino o il carattere di una parola da un colletto. Conta il colpo d’occhio, la Cina che somiglia a se stessa, tutti uguali e di conseguenza controllati.
Per un braccialetto sfuggito al dogma anti gioielli, il difensore Wang Shenchao ha preso 12 mesi di sospensione. Essere uno sportivo di successo significa essere un modello e gli esempi non perdono tempo dietro ai vezzi, come se scegliersi il colore dei capelli fosse davvero un gesto così superficiale. I rivoluzionari contro la parrucca, i contestatori capelloni, il caschetto corto alla Giovanna d’Arco per celebrare l’indipendenza, la storia è piena di tagli dimostrativi.
E pure di scomposti tentativi di osteggiarli. Dalle tv cinesi sono scomparsi i cartoni con le eroine fluorescenti, a partir dalle «Shining Star», animazione coreana in cui ogni protagonista ha un colore diverso, censurate per il desiderio poco onorevole di diventare cantanti pop e probabilmente per i testi politici sui gusti del gelato. Le «shining» sono pensate per un pubblico tra i 7 e 9 anni, futuri adolescenti che potrebbero spingere per un cambio culturale.
La Cina di Xi è connessa al mondo, è tecnologica, viaggia (quando può), si confronta e sa come trovare spunti oltre un cartone bandito, però il dress code del calcio è più subdolo. Il sistema è troppo rigido per concedere una possibilità a chi ha talento e vuole tenersi la propria identità, i giovani vogliono giocare e accettano l’imposizione. Tinta nera per tutte, può sempre gocciolare, come quella di Rudy Giuliani, e mostrare la sua precarietà.
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