"HO PRESO DUE ORI A TOKYO E A ROMA, ALLO STADIO DOVE MI ALLENO, MI SCAMBIANO PER IL CUSTODE" – VITA, TATUAGGI E SPRINT DI MARCELL JACOBS, ORO NEI 100 METRI E NELLA STAFFETTA A TOKYO – IL RAPPORTO CON IL PADRE CHE LO ABBANDONATO: “ALMENO IL FISICO GLIELO DEVO. ADESSO CI SCRIVIAMO E FORSE UN GIORNO CI VEDREMO. LA MIA MENTAL COACH AVEVA RAGIONE. TOGLIERMI QUEL NODO MI HA DATO LA LEGGEREZZA CHE MANCAVA ALLA MIA VELOCITÀ” - I BULLI E LE BOTTE A SCUOLA (“PER INVIDIA, PERCHÉ ERO BELLO”), LA LEGGE DEL GIAGUARO E LA CELEBRITA’: "LO SO CHE SONO SOLO BOLLICINE, MA LO È ANCHE LO CHAMPAGNE, GIUSTO?" - VIDEO
Pino Corrias per Vanity Fair
Il Re Giaguaro scende tra gli erbivori intorno alle 10 del mattino. Cammina lento e ampio, tagliando in diagonale le gradinate, dopo i cancelli e i pini marittimi dello Stadio Paolo Rosi, all’Acqua Acetosa, Roma, con passo di atletica eleganza. Guarda il cielo grigio come la sua tuta in microfibra, guarda le sue scarpe verdi, numero 46, da runner in passeggiata. Gli auricolari avvolgono i suoi 752 muscoli distribuiti in forma di elastici lungo i 188 centimetri di altezza e di tatuaggi, in una ritmica hip hop che lo rilassa e insieme lo carica di energia, come fa il temporale prima del fulmine.
E solo quando arriva sulla pista rossa di tartan per lo stretching che precede il rito quotidiano dell’allenamento, ha la gentilezza di scollegarsi dalla musica e accogliere i molti mondi che lo circondano con il sorriso del giorno nuovo, che anche oggi misurerà in metri al secondo, falcate e respiri.
E i mondi circostanti, abitati in questo momento da una dozzina di giovani esemplari di atleti – in tute blu, nere, rosa, calzoncini, cappellini, chewing gum – intenti al riscaldamento dei deltoidi tramite flessioni, rotazioni e chiacchiere, fanno silenzio, gli danno il cinque con la mano, e ordinatamente gli fanno spazio.
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Lo spazio se lo merita. Ci ha messo 27 anni, un giorno alla volta, per conquistarlo da quando è entrato nella storia della velocità, il primo agosto del 2021, Olimpiadi di Tokyo, gara regina dei 100 metri, 9 secondi e 80 centesimi di pura adrenalina e volontà, 45 passi in tutto, medaglia d’oro in mondovisione intitolata a suo nome, Marcell Jacobs. Per l’esattezza: Lamont Marcell Jacobs Junior, madre italiana, padre texano; cresciuto a Desenzano, sul Lago di Garda, meticcio come lo siamo più o meno tutti, viaggiatori tra i cromosomi della vita vera, lui scuro di pelle, ma quasi mai di umore, che ora si toglie la felpa, cambia le scarpe, mette quelle bianche chiodate, le sue famose Maxfly da sprinter e da sponsor, e finalmente parla: «Tre minuti e sono pronto».
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Lo dice all’altro fuoriclasse sceso con lui sulla pista, il suo allenatore Paolo Camossi, 47 anni, friulano di Gorizia, veterano d’atletica, che un giorno del 2001 a Lisbona è volato a 17 metri e 32 centimetri di lunghezza, record mondiale del salto triplo, occhi celesti, capelli fluenti, umore anche lui allegro. Detto oggi il Golden Coach, non solo per le due medaglie d’oro del suo pupillo a Tokyo, visto che c’è anche quella della staffetta 4x100, la gara che ha definitivamente mandato ai pazzi gli inglesi rosiconi.
Ma perché con Marcell, in cinque anni di simbiosi atletica – sudore, tecnologie, tabelle prestazionali e passeggiate dopo cena con sogni –, ha dissotterrato quel tesoro di biomeccanica che ha trasformato l’avventura di «un ragazzo che corre veloce», in quella «di un campione che vince». Gli dice: «Oggi andiamo tranquilli. Sciacquiamo le gambe con 12 ripetute, senza scaldarci troppo, d’accordo?». «D’accordo mica tanto», fa lui, «te dici sciacquare che sembra niente. Ma il culo me lo faccio io, giusto?».
Dialogo che più o meno inaugura il rito di ogni mattina del calendario, sei giorni su sette, più tre pomeriggi di palestra, domenica riposo, divano con playstation, hamburger libero, figli, fidanzata e caramelle, una pacchia. Le ripetute sono partenze morbide e allunghi fino a 120 metri, «per mettere fieno in cascina e tenere reattivi i muscoli», spiega Camossi, che si diverte a farla facile per provocarlo.
Marcell ci casca e corregge: «Le partenze non sono morbide, la corsa è vera, la tenuta in quei venti metri finali è dura, i miei polmoni lo sanno, lui fa finta di no». Si alza, ripone nella sacca il telefono con playlist anglo-italiana, fa sparire gli auricolari. Dice: «La musica è la mia vacanza, perché in fondo sono un tipo solitario e pigro che si culla».
E mentre si infila il cappellino, solo con un’occhiata obliqua ti dice: e invece guarda cosa mi tocca fare. Poi va a mettersi mansueto sulla corsia centrale prima della curva, senza blocchi di partenza. E aspetta.
Camossi si sposta sull’erba, all’interno della pista. Al collo ha due cronometri, il cellulare per le riprese, un fischietto. Al primo fischio Marcell va in posizione. Al secondo mette le dita sulla pista. Al terzo, parte. Quando stacca l’ombra da terra, la progressione è impressionante. E da così vicino lo è anche il rumore della falcata, quella di un treno a vapore che fila nel vasto West, mentre il corpo di Marcell soffia e vola.
Il coach se lo guarda per tutti i 14 secondi necessari, mentre lo registra in piano sequenza per l’archivio, e finalmente anche lui espira. Sa suddividere al colpo d’occhio la frequenza dei passi, «4,60 passi al secondo quando tira», i tempi di contatto e quelli di volo. Li ha studiati fotogramma per fotogramma, usando le riprese professionali dell’optojump, che ne registra 240 al secondo. Conosce il peso che sopporta il tallone e la spinta che imprime la punta del piede allo stacco, la pressione sulle ginocchia, la resistenza all’aria delle spalle. Recentemente ha migliorato la postura di Marcell eliminando il dente del giudizio che gli rallentava la gamba destra. Sa che il numero dei passi, moltiplicato con la lunghezza della falcata e l’intensità dell’esecuzione, fanno il tempo dei record o quello della sconfitta.
Dice: «La corsa è matematica. E Marcell è una equazione perfetta».
Marcell quell’equazione non la calcola più: dopo un milione di chilometri, gli scorre insieme al sangue. «I numeri sono il lavoro di Paolo, delle telecamere. Io corro come so e come posso. Ci metto tutto: la tensione, la testa, gli sbagli. E insieme con i muscoli, anche un sacco di ansia per le sfide. Ho corretto. Ho imparato. Ma correre è la cosa che mi piace di più al mondo».
È già storia la sua storia. Il padre, americano di colore, era arruolato nel corpo dei Marines di stanza a Vicenza. Sul Garda si innamora di Viviana Masini, la porta con lui a El Paso, Texas. Lei resta incinta. È felice. Ma il padre ha un cuore complicato e i nervi fragili. L’amore dilegua. Lui vola in missione in Corea del Sud, bye bye Viviana con bambino. Lei torna, senza troppi rancori, a Desenzano, che è pur sempre «la Rimini d’acqua dolce», si vive meglio. Racconta Marcell: «Avevo un anno e mezzo. Non ho ricordi dell’America. E non ne ho voluti di mio padre».
Invece, si ricorda tutto del cortile dove è cresciuto, degli zii, di quando passava i pomeriggi a correre e a rincorrere. Si ricorda delle estati a Roseto degli Abruzzi con i nonni: «La mamma veniva al mare due giorni ogni tanto. Faceva tre lavori contemporaneamente per mantenermi. Io e lei siamo cresciuti bene insieme: allegri, forti, indivisibili. E quando a scuola dicevano disegnate la vostra famiglia, non mi sono mai sognato di aggiungerci mio padre».
Lei lavora nelle pensioni – oggi gestisce l’hotel Florence nella frazione di Manerba – e se la cava.
Lui cresce troppo piccolo, fino alla terza media, e se la cava meno. Finisce tra le mandibole dei bulli, «mai per la pelle scura, in verità, ma perché ero fragile, diverso da tutti, e pure bello, con un sacco di ragazzine incuriosite dal mio nome americano. Quindi molta invidia al seguito. Perciò tormenti, botte, solitudine. Così mi bocciano. Cambio scuola. Trovo nuovi amici e finalmente cresco. Cresco tanto. Divento il più bravo in tutti gli sport. Sono il migliore a calcio, a basket, in pista. Mi iscrivo alle Commerciali, tanto per fare qualcosa: diciamo che io e lo studio non corriamo nella stessa corsia. E quando i prof mi dicono devi impegnarti di più o non combinerai nulla nella vita, rispondo che invece combinerò moltissimo, farò l’atleta».
A diciassette anni corre i 100 metri in 11,19. E soprattutto salta 7 metri e 17 in lungo. A diciotto entra nelle Fiamme Oro della Polizia, sezione di Brescia, divisa amaranto, palestre, istruttori e disciplina a tempo pieno. Il salto in lungo diventa la sua specialità, come all’inizio fu per Carl Lewis. «Era il mio mito, avevo il suo poster in camera che recitava: “Non c’è potenza senza controllo”. Per saltare ci vuole velocità, coordinamento, coraggio. Li avevo tutti e tre. Ogni tanto mi rompevo qualcosa, ma progredivo forte e insistevo».
Alla fine del 2015 salta 8,03 a Padova. Poi arriva l’infortunio più grave, il distacco del quadricipite femorale destro, che scende di 4 centimetri, «un male tremendo che ancora me lo ricordo, di carne strappata via». Fermo sei mesi, poi otto, un disastro.
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È quando tutto sembra perduto che incontra Paolo Camossi. Dice Marcell: «L’avevo visto qualche volta, allenava altri atleti, mi piaceva la sua calma, il suo umore. Con lui ho sentito sintonia al primo sguardo». Dice Camossi: «Ci siamo trasferiti a Gorizia e abbiamo cominciato dal fondo per risalire. Senza fretta. Ai miei tempi ci massacravamo di lavoro, ore di palestra, ore di partenze e salti fino a stramazzare. Noi abbiamo fatto il contrario, bilanciando gli sforzi con il riposo. Rispettando quella che io chiamo la legge del giaguaro, che corre per prendere la preda, ma se si accorge che non ce la fa, invece di scaricarsi, si ferma, riposa, cambia agguato, poi attacca e vince».
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Jacobs studia da giaguaro. Torna a saltare nella stagione 2017-18, ma al terzo infortunio – due volte le ginocchia, una volta il tallone – la sua nuova legge consiglia di aspettare, riposarsi, cambiare tecnica e riprovare. Perciò basta con il salto in lungo. «Decidiamo per la velocità», racconta Camossi, «lui aveva la struttura fisica per un grande miglioramento: la postura, le leve, la potenza. Gli dico: ci prendiamo altri due mesi di pausa e se i muscoli vanno giù, meglio, li ricostruiremo».
Nuovo trasferimento a Roma. Nuovo corso di velocista sui 100 metri. Esordio nel 2018 a Berlino, 10,28 agli Europei. Con replica l’anno dopo ai Mondiali di Doha, dove corre la semifinale. Fa buoni tempi, ma qualcosa ancora non funziona, qualche volta la schiena si incricca, qualche altra le gambe si bloccano per l’ansia o per lo stress. Racconta Marcell: «Così, un giorno Paolo mi dice che ho bisogno di un mental coach, perché ho dei nodi emotivi da sciogliere. Mi metto a ridere, non ho nessun bisogno di uno strizzacervelli, gli dico, sto benissimo di testa, ci mancherebbe, il problema è nelle gambe». E invece? «Invece vado a sedermi un giorno davanti a questa Nicoletta e mi si apre un mondo, il mio mondo».
Nicoletta Romanazzi, 54 anni, bionda, solare, tre figli, una fila di atleti in agenda («insegno che non c’è un modo per evitare le paure o i cattivi pensieri, ma c’è un modo per imparare a gestirli»), abita a due passi dalla nuova casa di Marcell, quartiere di Collina Fleming, e il dettaglio lo attrae. «Ci vado, mi siedo, mi fa parlare, parlare, parlare. Poi mi dice che penso troppo agli avversari e penso troppo poco a me. Mi dice: concentrati solo su quello che puoi cambiare. E comincia da tuo padre. Le dico: mio padre non esiste, non è mai esistito. E lei: appunto, quello è il nodo».
Così Marcell un giorno, invece di sollevare i suoi 100 chili al bilanciere, per una volta solleva il cellulare e scrive al fantasma di El Paso: «Era la prima volta. Lo faccio con il traduttore di Google perché non ho mai voluto imparare una parola di inglese».
La madre gli sta accanto, gli dice che non c’è niente di sbagliato a liberarsi dai rancori, come ha fatto lei che si è risposata e ha avuto altri due figli. Perché la vita va avanti sempre, come fanno le sfide, le gare, e naturalmente le ripetute agli allenamenti.
«Facciamo le ultime due spingendo un po’», gli dice Camossi dal prato. Marcell esegue. Il treno passa due volte. E tutti, al Paolo Rosi in questa fine mattinata, si fermano a guardarlo, come i bambini d’estate.
Solo che non è per niente estate, fa un freddo cane dopo due ore, e per non congelare, finiamo sotto al tendone riscaldato dell’entrata. Seduto quasi di spalle, con felpa larga e cappuccio alzato, i saltuari dello jogging di mezzogiorno entrano alla spicciolata e neanche lo riconoscono, gli allungano l’euro dell’entrata dicendo: «Buongiorno, buongiorno». Lui ride: «Ho preso due ori a Tokyo e qui mi scambiano per il custode».
La celebrità gli piace da morire.
«La notte prima delle Olimpiadi avevo 167 mila follower. La mattina dopo la vittoria, erano diventati 640 mila. Lo so che sono solo bollicine, ma lo è anche lo champagne, giusto?». E gli piace da morire non passare inosservato. A riposo ha il look di un gangsta-rap, anche se in teoria è un poliziotto: testa rasata, barba scolpita, piercing alla narice, brillanti ai lobi e al collo, come il suo amico Lewis Hamilton, il pilota, una mappa complicata di tatuaggi su tutto il corpo: fiamme, tigri, i nomi dei tre figli, Jeremy, Anthony e Megan. Più, naturalmente, il cuore pulsante dedicato a Nicole Daza, la sua compagna, conosciuta quattro anni fa in discoteca a Milano e che sposerà il prossimo settembre a Tenerife.
Un mese fa, con lei, è stato tra gli ospiti d’onore della festa di Giorgio Armani a Dubai, in cima al Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo. Non ha riconosciuto Sharon Stone, ma tutti i fotografi hanno riconosciuto lui. Nessuna paura di rimanere intrappolato dai troppi flash. «So cosa sono le illusioni, e so che un podio è molto più alto di un grattacielo, se devi salirci sopra da solo».
Magari per ritrovarci il padre. «Vero. Con mio padre ho fatto qualche gradino, in fondo almeno il fisico glielo devo. Adesso ci scriviamo e forse un giorno ci vedremo. Nicoletta aveva ragione. Togliermi quel nodo mi ha dato la leggerezza che mancava alla mia velocità». Lo dimostra subito, agli europei in Polonia, dove corre i 60 metri in 6 e 47, record e medaglia d’oro. Era marzo, centocinquanta giorni prima di Tokyo.
Dice che a Tokyo ci pensa sempre, ovvio. Qualche volta di notte e quasi ogni mattina, appena sveglio. «Anche oggi, prima di aprire gli occhi mi sono ritrovato ai blocchi di partenza. Ho rivisto la scena. Io che cammino verso la mia corsia. Ho le spalle basse, come mi ha insegnato Nicoletta, rilassato. Do il cinque a tutti i miei avversari che non se lo aspettano, a Kerley, l’americano che arriverà secondo, a De Grasse, il canadese, a Hughes, l’inglese che verrà squalificato per la doppia falsa partenza. Mi guardano come un marziano, sono tutti contratti, con le spalle rigide dei guerrieri e i denti stretti. Rivivo rallentati quei cinque secondi prima della partenza, uno sguardo al rettilineo della mia corsia 3, poi a terra, concentrato, in attesa dello sparo.
Respiro. Cuore. Silenzio. In quella attesa ho imparato che devi svuotare la testa, qualsiasi altro pensiero è un nodo, e se arriva hai già perso. Bang! Sono partito in 0,172 millesimi. Kerley è stato di 5 centesimi più veloce, l’ho recuperato e l’ho visto con la coda dell’occhio fino ai settanta metri, il punto della mia massima velocità, 43 chilometri all’ora, quando me lo sono lasciato alle spalle. Un istante dopo è esploso il mondo».
Ora il mondo si è ricomposto ai suoi piedi. Dicono che l’oro alle Olimpiadi valga cinque milioni di euro l’anno tra sponsor e pubblicità. Il doppio se diventi un personaggio iridescente come Marcell. Ci saranno le lusinghe, le televisioni, le discese ardite e le risalite. Dieci anni ancora di carriera, come sua santità Usain Bolt, il velocista più velocista di tutti, che gli ha scritto un «Bravo!» con tre bicipiti.
Dopo Natale partirà per un mese di ritiro al sole di Tenerife, sua isola d’adozione: «Detesto due cose al mondo, l’aereo quando parte e il gelo quando arriva». Ci andrà con la famiglia, Paolo Camossi, il fisioterapista, la babysitter e uno sparring partner che sta cercando, e che dovrà scegliere tra i 377 atleti che si sono proposti fino a oggi da tutto il mondo. Lavorerà all’High Performance Training, una pista a otto corsie, la palestra, la vasca del ghiaccio, tutto quello che serve per preparare i mondiali di Belgrado il prossimo febbraio.
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E poi? Le Olimpiadi a Parigi nel 2024 e quelle di Los Angeles nel 2028. Ride, dice: «Vedremo. Il mio sogno l’ho già messo al collo e tutto quello che verrà sarà un regalo». Sa che ora è lui il campione che vince. È sarà lui l’uomo da battere. Li aspetta al prossimo giro, come fa il giaguaro quando si riposa.
la proposta di matrimonio di marcell jacobs a nicole daza 7img 8043MARCELL JACOBS E TOTTI A SABAUDIA MARCELL JACOBS E TOTTI A SABAUDIA JACOBS TORTUMARCELL JACOBS - MEME BY OSHOJACOBS TORTUmarcell jacobs con eseosa desalumarcell jacobs accolto da star a fiumicino 4Marcell Jacobs e l'abbraccio con la mamma a fiumicinoil times e l'articolo sull'ex nutrizionista di jacobs 2marcell jacobsmarcell jacobs da bambino con la madre viviana masini marcell jacobs oasi di kufra sabaudia 1marcell jacobs da piccolo 2FILIPPO TORTU MARCELL JACOBS LORENZO PATTA ESEOSA DESALU - ABBRACCIO DOPO L ORO A TOKYO 2020 NELLA 4X100MARCELL JACOBS ESEOSA DESALU LORENZO PATTA FILIPPO TORTU - 4X100 ORO A TOKYO 2020paolo camossi e marcell jacobs 6paolo camossi e marcell jacobs 3Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Fausto Desalu, Filippo TortuMARCELL JACOBS INSEGUE UN'AUTOpaolo camossi marcell jacobspaolo camossi e marcell jacobs 4paolo camossi e marcell jacobs 2paolo camossi e marcell jacobs 5la proposta di matrimonio di marcell jacobs a nicole daza 1