“LA MIA FIDANZATA MI SPARÒ SUL VOLTO, MI SALVAI PER MIRACOLO MA NON DISSI NULLA. SMISI DI SCIARE” - L'EX CAMPIONE DI SCI DELLA “VALANGA AZZURRA” PAOLO DE CHIESA, STORICO COMMENTATORE RAI, RACCONTA QUEL “COLPO ACCIDENTALE” DI PISTOLA CHE GLI CAMBIO’ LA VITA: ”ERO A CASA DI PERSONE MOLTO FAMOSE, MI SONO PRESO LA COLPA E HO COPERTO TUTTI, MI SONO PENTITO PERCHÉ NESSUNO MI RINGRAZIÒ. AVEVO 22 ANNI E ANDAVO FORTE, PERSI 12 CHILI, TORNAI IN PISTA TRE ANNI DOPO" - SULL'INCIDENTE CHE È COSTATO LA VITA A MATILDE LORENZI: “QUANTO ACCADUTO È SEMPLICEMENTE SCANDALOSO PERCHÉ…”
Silvia M. C. Senette per corrieredeltrentino.corriere.it - Estratti
«Ho insabbiato tutto e ho coperto tutti. Ma alla fine l'ho pagata io». Paolo De Chiesa, 68 anni («sono del Paleozoico»), ex «Valanga azzurra» dello sci e storico commentatore Rai, si confessa: dall'incidente che gli ha cambiato la vita all'incredibile ritorno in pista da vincitore, dalle polemiche sulla morte di Matilde Lorenzi al futuro dello sci.
Lo raggiungiamo mentre è diretto a Madonna di Campiglio per la proiezione del film «La Valanga Azzurra» di Giovanni Veronesi in cui rivela, per la prima volta, un capitolo drammatico della sua vita: quel colpo «accidentale» di pistola in volto che ha cambiato per sempre il suo destino.
Perché ha deciso di parlarne dopo oltre quarant'anni?
«Non lo sapeva nessuno, non ne avevo mai parlato pubblicamente e sinceramente non so perché l'ho fatto ora. Forse perché questo film può essere considerato veramente la chiusura di un cerchio, un grande regalo di Fandango e Giovanni Veronesi. Quando è successa la tragedia ero nel pieno delle mie forze, avevo 22 anni, andavo fortissimo, ero tra i primissimi del mondo e questa cosa mi ha ammazzato. Ho perso 12 chili, ero al secondo anno di Medicina e ho lasciato gli studi, ho smesso di sciare».
Molto di quell'episodio è ancora avvolto nel mistero...
«Quell'incidente è successo vicino a Gallarate, eravamo a casa di gente molto, molto famosa e a sparare è stata la mia ex, una ragazza di Cortina. Io non ho mai fatto i nomi dei responsabili, ho sempre tenuto tutto per me, ho insabbiato tutto e ho coperto tutti, ma alla fine l'ho pagata io perché queste persone non mi hanno mai neppure telefonato, non mi hanno neanche chiesto scusa».
Non c'è stata un'inchiesta? Dall'ospedale non dovrebbe partire la denuncia in automatico?
«In effetti me lo sono domandato anch'io tante volte, ma erano altri tempi. Ho raccontato una versione diversa: ho detto che mi era partito un colpo pulendo la pistola e mi sono preso la colpa. All'epoca ero in Guardia di Finanza e probabilmente dall'altro sono arrivate delle direttive per cui non c'è stata un'indagine. È stato messo tutto a tacere. Tornassi indietro non lo rifarei assolutamente, visto poi come si sono comportate le persone. Oggi sarei andato dalla polizia e avrei detto: è accaduto questo, succeda quel che succeda».
È stato terapeutico parlarne dopo tanto tempo?
«Non lo so... Quel male, le conseguenze dirette di quell'episodio così traumatico, le porterò nella tomba: quella roba lì non ti va più via, ogni secondo della tua vita è presente. Poi per fortuna ho avuto una vita che mi ha anche distratto tanto, ho fatto tanto sport, ho avuto una famiglia e due figli stupendi. Però una vita normale sarebbe stata molto meglio: potendo avrei fatto cambio, anche senza più lo sport».
Quel lumicino era fede?
«Sì, mi sono avvicinato anche alla fede perché sopravvivere a quello che era successo aveva dell'incredibile, quindi è chiaro che ti fai delle domande. Però non sono credente come si potrebbe pensare; forse più agnostico. Io ho avuto il mio adorato nonno materno che era un colonnello degli alpini e nella guerra in Africa era stato trafitto da un proiettile che gli aveva sfiorato polmoni e cuore e si era conficcato nella spina dorsale: anche lui un sopravvissuto. Mi piace pensare che il nonno, due anni prima, mi aveva salvato. Chi lo sa... sono fantasticherie, non ci ho mai creduto veramente, ma il pensiero l'ho avuto».
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Ci sono voluti tre anni per tornare...
paolo de chiesa thoeni e la valanga azzurra
«È stata dura recuperare terreno, fisicamente ero finito e in Coppa del Mondo devi essere una bomba se vuoi essere tra i primi come ero abituato a essere io. I medici erano molto dubbiosi ma alla fine ho strappato un sì e ho ricominciato a fare gare, la trafila, i primi risultati, finché dopo tre anni è arrivato il podio a Madonna di Campiglio ed è stato pazzesco: ero tra i più grandi del mondo, con Stenmark e Mahre sul podio davanti agli altri. Lì ho detto: forse ce l'ho fatta».
Con che spirito rivive a quel momento?
«Ci penso poco, ma quando ci penso mi dico: bravo! È stata una soddisfazione grande, non per quello che ho fatto, ma perché ce l'ho messa veramente tutta e sapevo che per riuscirci l'unica speranza era quella, metterci l'anima. Per questo ogni tanto mi dico sinceramente: bravo».
Eppure lei non si sente un campione, definisce campioni «solo quelli che vincono».
«Oggettivamente non sono un campione. Il campione è colui che vince, nello sport: io non ho mai vinto. Ho fatto 12 podi, sciavo sicuramente benissimo, sono stato più di 50 volte nei primi dieci. Thoeni e Gros: loro erano i campioni, noi eravamo dei bravi sciatori. Poi, dentro di me, io so quello che ho fatto e so che ha un valore enorme anche dal punto di vista umano e sportivo. Non c'ero più, ero sparito nei meandri di un'altra vita e sono tornato praticamente quello che ero. È una grandissima vittoria, questo lo riconosco».
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Dopo il ritiro dalle competizioni si è imposto come commentatore sportivo. Com'è lo sci visto dall'altra parte?
«Mi sono divertito subito perché questo mestiere mi permetteva di continuare a fare quello che mi piaceva però non più come protagonista, ma stando sugli sci degli altri. Tutt'oggi mi piace molto e mi dà ancora forti emozioni che cerco di trasmetterle alla gente che mi ascolta e guarda la gara".
Qual è la differenza più significativa tra lo sci della sua epoca e quello di oggi?
«È tutto un mondo diverso: dagli sponsor alla spaventose evoluzione tecnologica dei materiali per cui oggi c'è molta più velocità e lo sci è diventato molto più pericoloso. È impressionante. Di conseguenza c'è una preparazione diversa dal punto di vista fisico, gli atleti hanno sistemi che permettono di diventare potentissimi per governare gli attrezzi a quelle velocità».
Recentemente ha usato parole molto dure per l'incidente costato la vita a Matilde Lorenzi...
«Quello che è successo è semplicemente scandaloso. C'era una ragazza della Nazionale che si allenava su un percorso senza sufficienti parametri di sicurezza, il tracciato era vicinissimo a un bordo pista oltre il quale c'era un dirupo.
Delle due, l'una: o ci dovevano essere delle reti, con un tracciato di allenamento a debita distanza, oppure se non ci sono le reti non si traccia a quelle distanze, ci vogliono le vie di fuga. Sono rimasto inorridito dalla fretta con cui è stata chiusa la faccenda e dall'omertà. Sarebbe la prima volta nella storia dello sci che un atleta cade a 50-60 all'ora in slalom gigante e muore. Non esiste, a meno che non vada fuori pista contro una pianta o un ostacolo».
E delle recenti polemiche per gli incidenti sulla pista di Bormio cosa pensa?«"Sono state fatte sentenze inaudite da parte dei francesi. Il problema della sicurezza c'è, assolutamente, ma è determinato dall'eccessiva velocità e da materiali pericolosi, non dalla pista che è perfetta. La discesa libera non sarà mai una partita di burraco, chi la fa sa benissimo a quali rischi va incontro. Io piuttosto penserei a ridurre la velocità nei tracciati».
Cosa cerca oggi nella montagna?
«Pace, serenità. La mia passione oggi è salire con le pelli, con le mie forze, e scendere nel silenzio di queste valli dove non c'è nessuno. Mi dà tanto in termini interiori. In quel momento trovo un senso alla mia vita, sento la neve che fruscia sotto i miei sci, mi alzo e volo su queste coltri bianche».
Chi è oggi Paolo De Chiesa?
«Sono semplicemente una persona che sta invecchiando, spero serenamente, cercando ancora di impegnarmi al massimo in tutte le cose che fa: che giochi a golf o che lavori in televisione. Forse sono il risultato di tutto quello che ho fatto nella mia vita e la vita sta finendo, l'ho vissuta. È importante lasciare dei bei ricordi e sicuramente ne ho lasciati a chi mi ha voluto bene. Sono stato fortunato e sono sopravvissuto a quell'incidente: tutta la mia fortuna l'ho spesa lì».
Cosa pensa dei colleghi campioni che tornano a gareggiare in età avanzata?
«Non giudico nessuno, ma io non l'avrei mai fatto: i grandissimi campioni devono uscire di scena al meglio. Tomba ha fatto l'ultima gara della sua vita e l'ha vinta: questo è il massimo.
Ero un gran tifoso di Borg ma quando l'ho visto tornare in campo a Montecarlo dopo tanti anni mi ha fatto pena: vederlo tirare quei colpetti e prenderle da un pinco-pallino qualsiasi mi ha fatto compassione. Non l'ho mai più guardato. Un campione deve avere dignità e forse ha l'obbligo, nei confronti di tantissima gente che l'ha idolatrato, di non scendere più da quel piedistallo».