AZZURRI "SBORONI" PER PAURA – PERRONE: "DAL CT VENTURA A FLORENZI: C' È IL SOSPETTO CHE LA SICUREZZA DI ANDARE IN RUSSIA NASCONDA IL TIMORE DI PASSARE GIUGNO 2018 DAVANTI ALLA TV" – SCONCERTI RICORDA IL MAGICO TRIO GREN, NORDHAL E LIEDHOLM: “LA SVEZIA NON È SEMPRE STATA LA BUONA MAESTRINA CHE È ADESSO E CHE COMUNQUE CI SPAVENTA...”
Roberto Perrone per “il Giornale”
Per il commissario tecnico Giampiero Ventura «noi saremo al Mondiale». Alessandro Florenzi promette: «L' Italia andrà in Russia, voglio morire sul campo per riuscirci». È scoppiato il Russiagate, gli svedesi si sono irritati, convinti che abbiamo detto loro che faranno solo da mobilio nelle due sfide di venerdì a Stoccolma e lunedì a Milano.
Siamo stati troppo spavaldi? In realtà più che il timore che Ventura e Florenzi si siano spinti troppo oltre, c' è il fondato sospetto che la sicurezza nasconda il timore, e anche un po' la paura, di passare giugno 2018 davanti alla tv.
Solo sessant' anni fa, nel 1958, l' Italia mancò la qualificazione (nel 1930, prima Coppa Rimet, si scelse di non partire per l' Uruguay). E il Mondiale si disputava proprio in Svezia. L' Italia di Alfredo Foni, imbottita di oriundi (Ghiggia e Schiaffino, quelli del Maracanazo 1950, Montuori, Da Costa) affonda nel fango di Windsor Park a Belfast. È il punto più basso del peggior periodo del nostro calcio, privato nove anni prima, della generazione Grande Torino. I giovani talenti scarseggiano, ricorriamo a vecchi immigrati.
Anche ora il nostro calcio arranca. Quindi questo «ganassismo» azzurro non può che essere un modo per esorcizzare il pensiero funesto dell' eliminazione. C' è qualcosa di peggio che non andare al Mondiale: venire ricordati come quelli che non ci sono andati. Per scoprire chi sono quelli che fallirono la qualificazione nel 1958 bisogna impegnarsi un po'. Ma ora, con tutti i media/social che abbiamo a disposizione, la memoria dell' insuccesso non scomparirebbe tanto in fretta.
Per cui bisogna ostentare sicurezza. E pace se gli svedesi se la prendono. Non è mancanza di rispetto. Anzi.
2 - QUELLA ERA LA SVEZIA, UNA GENERAZIONE SOPRAVVISSUTA ALLA GUERRA
Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera”
La Svezia non è sempre stata la buona maestrina che è adesso e che comunque ci spaventa. Per più di dieci anni, subito dopo la guerra, fu una delle squadre più forti al mondo, con una lunga serie di fuoriclasse: Gren, Liedholm, Skoglund, Hamrin, Gustavsson, soprattutto Nordahl. Nel 1948 vinsero le Olimpiadi di Londra, nel '58 giocarono la finale del Mondiale contro il primo grande Brasile, ma l' epoca era già finita.
Gren aveva 38 anni, Liedholm 37, Pelé solo 17, Altafini 21. Gli svedesi sono stati molto importanti per il calcio italiano.
Eravamo un paese distrutto, la nostra statura media era sotto il metro e settanta, il peso intorno ai sessanta chili. Stavamo ricostruendo il paese in bicicletta e avevamo abbastanza fame. Ma c' era la voglia di inventare che spesso nasce quando la miseria diventa fantasia. Pensammo che quei ragazzi biondi, alti, così diversi, potessero essere un' occasione. Amavamo un' abbondanza che non avevamo. Non a caso al cinema fu l' epoca delle maggiorate, ci piaceva il tanto.
Così si aprì una vera caccia agli svedesi e, per sintonia, anche ai danesi (gli Hansen, Ploeger eccetera). Arrivarono tutti mentre il Grande Torino moriva lasciandoci senza un' altra idea di calcio. Puntammo sulla loro diversità. Questo ottenne un ribaltamento del gioco. Eravamo sempre stati dei fantasisti, Meazza era stato il Messi di allora senza barare molto. Giocavamo di conseguenza palla a terra, in alto non sapevamo andare. Svedesi e danesi portarono questo, il gioco forte, fisico, e dalla loro altezza, il colpo di testa. Fummo costretti ad alzare la palla. Nacquero le centinaia di gol dei primi anni cinquanta, i record di Nordahl, 105 centimetri di torace e una velocità da centometrista. Ma anche l' intelligenza tattica di Liedholm e Gren, gli scatti di Hamrin, l' estro e voglia di vivere troppo di Nacka Skoglund.
Nordahl fu il risultato di un tradimento. Il Milan aveva preso Ploeger, un danese che prometteva molto. Partì in treno dal suo paese, a Domodossola salì in carrozza il dirigente della Juventus Giordanetti che gli offrì 30 milioni contro i 25 del Milan. Ploeger accettò, il Milan rimase senza centravanti. Protestò molto.
Gianni Agnelli capì di aver esagerato e chiese al suo concessionario in Svezia di acquistare un altro attaccante, Nordahl, che offrì al Milan.
Ploeger segnò quell' anno un solo gol, Nordahl uno a partita. Arrivò a Milano il 22 gennaio del '49, c' era la neve. Lui e sua moglie scesero dal treno in camicia di seta, erano convinti di essere arrivati nel paese del sole. Nordahl saltò la prima partita per influenza. Quella grande Svezia durò una sola generazione nonostante fosse così diversa da sembrare l' arcadia del nuovo calcio. Mi sono chiesto spesso perché quel successo così evidente in una nazione che poi ha sempre giocato benino, sempre in modo ordinato ma è stata normale fino alla noia. Mi sono dato una risposta disperata. In un' Europa che aveva lasciato sui campi della guerra venti milioni di ragazzi, gli svedesi erano stati fra i pochissimi giovani a non avervi partecipato. Gli unici sopravvissuti.