"IO C’AVEVO UN RE" – LA POESIA DEL ROMANISTA FAVINO PER TOTTI: "…LO VOLEVA IL MONDO MA CE L’AVEVI TU. ECCO PERCHÉ SO’TRISTE, PERCHÉ NUN CE L’HO PIÙ” – IL SALUTO DI MESSI: "SEI INCREDIBILE, CAPITANO" - NIOLA: "ABBIAMO PERSO CON LUI UN PEZZO DELLA NOSTRA GIOVINEZZA" - AUDISIO: "L’ ADDIO DI TOTTI, UNO SHOW AMERICANO MAI VISTO IN ITALIA"
Testo della poesia di Pierfrancesco Favino per Totti
Tornamo a casa, so’ le 9 e mezza. Non c’ho voja de magna’, m’ha preso ‘na tristezza!
De che sei triste? Come ma de che? Nun c’ho mai avuto un regno, ma io c’avevo un Re.
E oggi m’ha abdicato. Sto tempo ce cojona, è ‘n attimo, ‘n t’ accorgi e via! Giù la corona.
Ma come, pare ieri, la maja larga addosso, che sto biondino entrava e noi “L’hai visto questo?”.
Poi ‘n so se so’ le maje oppure se ha magnato, ma zitto zitto er bionno s’è fatto fisicato.
Quanno toccava palla te rifacevi l’occhi e nun ce fu più Roma se nun ce stava Totti.
E intanto i Papi andavano, pure li Presidenti, ma io stavo tranquillo, lui in campo, sull’attenti.
Passavano l’inverni, venivano l’estati. La sabbia sul giornale, i “Chi se so’ comprati?”
L’invidia der momento pijava pure a me, ma me durava un mozzico perch’io c’avevo il Re.
Che mentre tutti l’artri cambiavano majetta, la sua come la pelle, se l’è tenuta stretta.
E questo ai romanisti j’ha dato più de tutto. Lo so, ‘n se pò capi’, ma è più de ‘no scudetto.
Perché se ‘n sei de Roma, se addosso c’hai le strisce, sei abituato a vince, nun sai che so’ le ambasce.
E vede’ il Re del calcio co’ addosso i tuoi colori, pure se giochi e perdi te fa passa’ i dolori.
Cor piede suo che è piuma e poi se fa mortaio, cor tacco, er collo, er piatto e doppo cor cucchiaio,
m’ha fatto sarta’ in piedi più de ducento vorte, tanti quanti i palloni raccolti nelle porte.
E lo voleva il mondo ma ce l’avevi tu. Ecco perché so’ triste, perché nun ce l’ho più.
2. PERCHÉ CI FA PIANGERE UN CAMPIONE CHE SE NE VA
Marino Niola per la Repubblica
Grazie Totti, che ci fai piangere e abbracciarci ancora. Dovrebbe cantarlo in coro tutta l' Italia, romanista e non. Perché l' addio al calcio del capitano giallorosso ha assunto le cadenze di un grande rituale popolare. Di quelli tanto amati da Pasolini, che considerava il calcio l' ultima liturgia collettiva di una società sempre più orfana di simboli.
Domenica il Pupone si è rivelato fino in fondo un campione, ma nel vero senso della parola, cioè una parte che sta per un tutto. Un pezzo der core de Roma che diventa un pezzo del cuore d' Italia.
Perché fa da specchio alle nostre passioni, ossessioni ed esaltazioni. Riassume e confessa ad alta voce i nostri timori e tremori. E così il calciatore che ha abitato a lungo le nostre barzellette, che ha alimentato il mito dell' atleta scarpe fini e cervello grosso, ha inanellato tutta una serie di argomenti da fare invidia a un filosofo teoretico e pure a un poeta metafisico. L' uscita dall' infanzia e l' ingresso nell' età adulta.
La rinuncia all' eroismo della poesia, per adattarsi alla prosa di un quotidiano prosaico. La paura del tempo che passa inesorabile. Il brusco risveglio alla realtà dopo aver coltivato l' illusione che la vita è sogno. Parole e concetti da Calderon de la Barca e da Shakespeare, che l' altro giorno si sono rincorsi sugli spalti di un Olimpico perturbato e commosso, esaltato e affranto. In delirio per la Champions, in lutto per The Champion.
Ma domenica un po' perturbati e molto commossi lo siamo stati un po' tutti perché, in realtà, quegli argomenti ci perforano la mente e ci stringono il cuore. Perché il tempo che passa e non torna, il "maledetto tempo" lo ha chiamato Tottigol, ci sgomenta. È inutile nasconderselo. E per quanto cerchiamo di prepararci alle prove che ci riserva, non lo saremo mai veramente. È per questo che nessuno, nel suo piccolo, vuole appendere le scarpe al chiodo.
Ma, sentircelo ricordare in un santuario della giovinezza come lo stadio, da un atleta che fino a ieri ci ha regalato sprazzi di bellezza e scariche di adrenalina e che improvvisamente ci chiama a pensare sui grandi misteri dell' esistenza, ci fa venire voglia di stringerci agli altri per sentirci meno fragili, meno esposti. E soprattutto meno adulti. Perché ogni passaggio della vita è una piccola morte, come ha scritto Maurizio Crosetti su queste pagine.
Insomma Francesco Totti ha vissuto il suo rito di passaggio, ha smesso ufficialmente di essere giovane. E noi abbiamo perso con lui un pezzo della nostra giovinezza, un campione della nostra meglio età. Per questo gli vogliamo ancora più bene.
IL BISOGNO DELL'ULTIMA CAREZZA
Emanuela Audisio per la Repubblica
L' ultimo spettacolo stavolta è roba nostra. Lou, Mike, Kobe, Diego: l' addio alle armi non più vostro.
Ma è «made in Rome». By Francesco. Dire e dirsi addio è sempre un film alla Frank Capra. Ma la colonna sonora è all italian: Morricone, De Gregori, Venditti, Piovani. E the end c' è davvero? O magari viene sostituito da un to be continued, alla prossima puntata, lontana da Roma, ma più vicina all' odore dell' erba. Però la letterina di Francesco e Ilary, anche se è impacciata, è da Oscar: c' è tutto, ironia, tristezza, paura, sentimento, padri e figli, ieri e oggi e maledetto il domani, se sarà senza pallone.
Se, appunto, if. Come la poesia di Kipling. Mai in Italia un giocatore era stato in mezzo al campo per così tanto tempo con un microfono in mano: a dire aiutatemi. Help me.
E a passeggiare nervosamente come un uomo in sala parto. Finora era capitato solo per le emergenze (Scirea all' Heysel), mai per ricordare che c' è un tempo diverso, lontano dai miti e vicino agli uomini. E che i campioni possono essere gladiatori o Highlander, ma quando escono di scena hanno bisogno della tua carezza perché custodiscono il mistero della gioia data e avuta. Il 4 luglio del 1939 allo Yanke Stadium, un ragazzo di 36 anni, prima base degli Yankees, formidabile campione di baseball, capace idi giocare 2130 partite consecutive, fa piangere tutti, anche il sindaco Fiorello La Guardia.
Il ragazzo non riesce più a tenere la mazza in mano, è ammalato di Sla, di un morbo che porterà il suo nome Lou Gehrig. 61.608 fans sono lì per lui, gli danno un premio, ma Lou è costretto a poggiarlo a terra, non ha più forza nelle braccia. Eppure è stato il primo giocatore del ventesimo secolo a battere quattro fuoricampo in una partita. Sembrava che solo l' America avesse il copyright della cerimonia degli addii. L' ultima volta di Michael Jordan si è ripetuta tre volte: nel '93, nel '98, nel 2003. Per Larry Bird, uno che di basket se ne intendeva Mike era «semplicemente Dio travestito da Michael Jordan».
Air lasciò per davvero a 40 anni davanti a 21.257 spettatori con una sconfitta e affidando ai tiri liberi gli ultimi due punti della sua carriera. Per tre minuti il First Union Center di Filadelfia non fece altro che piangere: Jordan non era il suo dio, ma se il basket è la tua religione non puoi non ringraziare l' uomo che ti ha fatto vedere il cielo, che ha vinto sei campionati con la stessa maglia (Chicago Bulls), che ha segnato 38.451 punti, per poi chiederti se ti andava di fumare un sigaro con lui. Si sa, Hollywod non spegne mai le sue stelle.
Per questo Koke Byant l' anno scorso scelse da solo, a 38 anni, il viale del Tramonto dopo 20 stagioni a Los Angeles con la stessa maglia (Lakers), con un' ultima partita da 60 punti e con un lungo addio già annunciato e celebrato su tutti i campi. «Il mio corpo non ce la fa più». Ma in casa, allo Staples Center, fu tutto diverso: ovazione e coriandoli, lacrime e ricordi, sorrisi e tristezza, consapevolezza e pace.
L' inno suonato da Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers. Vittoria in rimonta contro gli Utah Jazz (101-96). Un' uscita di scena a 4"1 dalla sirena finale. «Sarete sempre nel mio cuore». E l' omaggio dei suoi immensi colleghi: Magic Johnson, James, Curry, Shaq, e mettiamoci anche Jack Nicholson. Diverso l' addio di Diego Armando Maradona nel 2001 nello stadio Bombonera di Buenos Aires: non una festa, ma una psicosi collettiva, però impressionante per folla e follia, per ammissione di colpa e salvataggio in extremis del pallone: «Io sono sporco, ma il calcio è pulito».
Diego, ubriaco di se stesso, che in campo si trascinava, ma con le figlie pronte a sorreggerlo, e con l' Argentina pronta ancora una volta a baciarlo. Quando la gloria è cellulite che fa male. Invece a Roma la Totti family che si abbraccia. La prima volta che l' Italia non guarda al colore della maglia, ma a quello che c' è sotto e attorno. Un bel film, che fa piangere e ridere. E prossimamente chissà su quale schermo.
TOTTI 1TOTTI 2TOTTI PALLOTTA 1TOTTI