1. STASERA TUTTI A CASA C’È, JUVENTUS-ROMA, TOTTI VS PIRLO, LA NOTTE DELLA VERITÀ 2. LA VITTORIA DELLA JUVE CREEREBBE UNA FRATTURA DIFFICILE DA SANARE TRA I BIANCONERI E I LORO INSEGUITORI PIÙ IMMEDIATI. IL PAREGGIO E, OVVIAMENTE, ANCOR PIÙ IL SUCCESSO DELLA ROMA TERREBBERO VIVO IL CONFRONTO. MA IL SUCCESSO BIANCONERO NON SAREBBE LA PIETRA TOMBALE SULLO SCUDETTO PERCHÈ TRA GENNAIO E FEBBRAIO LA SQUADRA DI CONTE HA AVUTO NEGLI ULTIMI DUE ANNI UN APPANNAMENTO 3. GARCIA NON È LUIS ENRIQUE E MENO CHE MAI ZEMAN, L’UNO ACERBO E L’ALTRO OBSOLETO, ANCHE SE A ROMA SI ERANO COSÌ INNAMORATI DEL PERSONAGGIO CHE NON VEDEVANO I LIMITI DEL TECNICO. E POI, COMUNQUE VADA BASTA CHE CI SIA FRANCESCO TOTTI

Marco Ansaldo per La Stampa

Nella serie di «partite della vita» che si moltiplicano nel campionato, come se fossero tutte decisive, Juve-Roma si distingue per la serietà della definizione. Questa è davvero la prima svolta possibile della stagione e i giallorossi sono la squadra che si avvicina di più come valore ai campioni d'Italia.

Scomponendola per reparti, la Roma a differenza del Napoli ha una difesa lucida e solida quanto quella juventina che, dopo una partenza incerta, ultimamente ha preso meno gol dei rivali; saranno di fronte i due centrocampo di gran lunga migliori della serie A e tra i meglio assemblati d'Europa;

in attacco i torinesi sono più pericolosi nei tagli e negli inserimenti nello stretto ma i giallorossi rispondono con il gioco sulle fasce affidato ad ali offensive e non a terzini adattati, oltre al momento ispirato di Destro sotto porta. La preferenza è per Conte ma siamo alle sfumature.

La vittoria della Juve creerebbe una frattura difficile da sanare tra i bianconeri e i loro inseguitori più immediati. La Roma, fin qui imbattuta, ne subirebbe il contraccolpo: è frustrante correre dietro alla lepre che elude tutte le tagliole, anzi ad ognuna che supera aumenta la velocità.

Il successo bianconero non sarebbe la pietra tombale sullo scudetto perchè tra gennaio e febbraio la Juve ha avuto negli ultimi due anni un appannamento (probabilmente per il lavoro di richiamo che Conte impone nella sosta natalizia), dunque potrebbe perdere qualche battuta: 8 punti però sono un solco che obbligherebbe le avversarie a non sbagliare più nulla fino al 18 maggio.

Un modo scomodo per tirare avanti.
Il pareggio e, ovviamente, ancor più il successo della Roma terrebbero vivo il confronto. Sono constatazioni banali ma non dimentichiamo che i giallorossi nelle loro tre esibizioni allo Juventus Stadium (tutte nel 2012: una in Coppa Italia e due in campionato) hanno incassato 11 gol, ne hanno segnato 1 per cui uscirne questa volta con le ossa sane sarebbe una ragione in più per caricarsi.

Garcia non è Luis Enrique e meno che mai Zeman, l'uno acerbo e l'altro obsoleto, anche se a Roma si erano così innamorati del personaggio che non vedevano i limiti del tecnico. Alla terza ricostruzione in tre anni si è arrivati alla giusta mediazione tra il gioco propositivo che è una costante dei giallorossi dai tempi di Liedholm e la concretezza.

Garcia, come quei suoi due predecessori, dice che verrà a Torino per vincere ma ci proverà alla sua maniera assennata, senza scoprirsi, lasciando alla Juve la responsabilità maggiore di fare la partita per colpirla quando si scopre: un italianismo in salsa francese.

Immaginiamo una Roma simile a quella del primo tempo a San Siro contro l'Inter, quando Mazzarri si illuse di poterla attaccare e ne fu castigato. Certamente la Juve non è l'Inter. Alla qualità delle ripartenze giallorosse che hanno in Gervinho un esecutore formidabile che può mettere i difensori esterni in affanno sulla velocità, Conte oppone una squadra fisicamente più forte, più brava e organizzata nell'aggredire e mettere pressione.

Se la Roma gioca per vincere, la Juve lo fa due volte di più e quasi sempre nello stesso modo: tutti la conoscono ma pochi in Italia hanno trovato la chiave per fermarla perciò fa sorridere la battuta di Totti sugli «aiutini» quando tutti nel clan romanista hanno insistito sulla superiorità dei bianconeri. Si mettessero d'accordo: questa Juve vince per gli arbitri o perchè, come ha detto ieri Garcia «potrebbe schierare due squadre ugualmente in grado di vincere lo scudetto»?

2. COMUNQUE VADA BASTA CHE CI SIA TOTTI
di Daniela Ranieri per Il Fatto quotidiano

Tutti, a Roma, i portantini del San Camillo e i fornai del Labaro, i notai di Prati e i cornettari del Tuscolano, sanno che Totti è Totti. Tutti, pure i laziali, pure quei romanisti che 20 anni fa hanno deciso di fare l'eterna parte dei bastian contrari preferendogli questo o quello, pure i pazzi che lo volevano al Real Madrid per salvare la squadra. L'essenza del fuoriclasse è tutta nella indivisibilità dei suoi talenti, nella indiscutibilità delle fede che suscita.

Basta ascoltare una radio romana per mezza giornata: una liturgia ossessiva stordisce e illumina incessantemente, calibrata sulla doppia onda psichica della prossima partita (Totti gioca/non gioca) e dell'eterna ingiustizia subita, di cui la mancata consegna del Pallone d'Oro è allegoria spinosa e liberatoria. Il tifo somiglia all'himeros, il desiderio erotico del cittadino greco per la polis, sentimento di virile spirito di spogliatoio e logica dell'esclusività ("c'è solo un Capitano"), pure più grande dell'istinto bellico che mira a eliminare i nemici e infine a vincere.

Totti, di cui i tifosi conoscono fratture, chiodi, stiramenti, lesioni di legamenti ed escoriazioni, incarna questo amore e lo traduce in campo catalizzando la speranza pigra e quella specie di fatalismo scioperato che costituisce l'animo del romano. Totti che litiga coi guardalinee, che le promette ai professionisti del fallo, che viene falciato da un difensore o fischiato da curve tremebonde, lenisce ed esacerba il complesso del romanista di essere vittima e carnefice, leone e cristiano, gladiatore e pubblico. Assetato di gloria e rosicone. L'attesa della partita di stasera contro la Juve deflagra in epos: nel derby morale si gioca sempre in 11 contro 14, l'arbitro è il convitato di pietra, gli assistenti i sicari del destino.

Nell'era di Papa Francesco, priva di simboli e sbalestrata, Francesco (più di qualcuno, al momento dell'annuncio con grande gaudio, pensò che la scelta del nome fosse un omaggio del Papa al dio secolare della Capitale), è lo spirito che riscatta un tempo immobile, indolente e superstizioso. È l'uomo della Provvidenza calcistica, come sanno bene quelli che lo dileggiano in campionato e lo vorrebbero in nazionale. Quando gioca lui, l'affare in campo è di epica, di cultura, di intelligenze e di onore.

Il senso di felicità, carioca e geometrica, che sprigiona da certe sue prodezze, la strafottenza infantile e barbara del cucchiaio, il teatro delle dita che fanno segno di tacere, che quattro, che via, la coscienza spaziale e la sensibilità propriocettiva quali elementi estrosi all'interno di una sapienza tecnica rigorosa: questo è Totti eppure non lo esaurisce.

Pure Totti sa che Totti è Totti: alla domanda del Messaggero : "C'è un altro Totti in giro per il mondo?" risponde: "Io non l'ho ancora visto".

I Conte, i Montella, compagni di Nazionale e di club ("Li vedo in panchina e dico: io ancora gioco?"), Del Piero e persino Baggio, personificazione pura del talento, sono stati descritti dalle loro parabole, da una carriera tra apici e cadute scandita dalla tortura da doppio vincolo psichico del fuorigioco.

Il mito di Totti oltrepassa Totti. A cominciare dall'intelligenza di farsi da sé la propria parodia. Sfugge alle imitazioni, perché la sua potenza non consiste nel potere (bersaglio di ogni satira) ma è il suo contrario: cioè la forza dell'impegno, della resistenza, del sacrificio; ha neutralizzato la caricatura recitando barzellette di cui era protagonista, nel senso esattamente opposto a quello di B. impegnato coi grandi della terra a tessere il suo contro-mito. Totti filtra con l'ironia il segreto sempre un po' pesante di una propria epopea, come dimostrò al Maurizio Costanzo Show, quando con una battuta fulminante svelò lo stupefacente paradosso di sentirsi dire spesso dal padre "quanto era più bravo tu' fratello".

I detrattori si appellano allo sputo al giocatore danese (forse uno dei motivi del Pallone d'Oro negato), alla semplicità "coatta" delle sue esternazioni. La sua frase più ricorrente, premessa di ogni risposta, è "è normale che", formula che introduce un concetto non banale, ma limpido, di quella limpidezza dell'evidenza così diversa dalla diplomazia da intervista a bordo campo dettata ai giocatori dagli uffici stampa che li trattano come decerebrati che debbano intervenire in un convegno all'Onu.

Anzi, spesso ha l'effetto di sottolineare la banalità della domanda. Chi vuole vedere in Totti l'esempio dell'incultura, il prototipo di una generazione senza valori se non quelli del successo, dei soldi, del matrimonio con showgirl famose, dichiara una mente provinciale, anzi: locale, cieca ai fenomeni che fanno la mitologia popolare e per di più muovono milioni.

Non si capisce perché i piedi di Gene Kelly fossero motori di cultura, di leggenda, di industria, di magia (lo sono) e quelli di Totti no. È meglio che la Fifa, ormai, lasci stare i suoi calcoli moralisti e le sue cerimonie, rinunci a dare il Pallone d'Oro a Totti e si studi di fare più bella figura dando Totti al Pallone d'Oro.

 

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