LE VERE RAGIONI PER CUI MESSI RESTA AL BARCELLONA: PIU’ CHE UNA SCELTA, UNA RESA CHE CONVIENE A TUTTI. AL CITY, A BARTOMEU, A KOEMAN. FORSE, IL PIÙ PENALIZZATO DA QUESTA SITUAZIONE SARÀ PROPRIO LEO, CHE RISCHIA DI SPRECARE UN ANNO. MA A GIUGNO 2021 POTREBBE TORNARE IN CATALOGNA GUARDIOLA, MAGARI CON LAPORTA COME PRESIDENTE. IN QUESTO DISEGNO, RITROVEREBBE LA PULCE PER "GESTIRNE" IL TRAMONTO…
Sandro Modeo per corriere.it
Quello che sembrava un crash epocale si è tradotto in una delle reiterate crisi reversibili tra Messi e il Barcellona. Certo, di gran lunga la più acuta e la più prossima a sfociare davvero nel divorzio. Ma si tratta di una crisi solo in parte inimmaginabile e sorprendente, come si può verificare ripercorrendo le metamorfosi incrociate della Pulce e della società lungo il «ventennio» appena concluso e scavando negli snodi effettivi che hanno condizionato il possibile exit.
La faida e le metamorfosi incrociate
Da un lato, la metamorfosi del giocatore. Il Messi che approda a Barcellona nel 2000 è somaticamente un doppio (vedi pettinatura) dell’attore Mitchel Musso, il protagonista della sit-com Hannah Montana.
Un bambino-adolescente timido e/o introverso ai limiti dell’autistico che si abbandona a lunghi pianti notturni nel segreto di una stanza della casa paterna (il resto della famiglia è tornato a Rosario), ma passa giornate esaltanti coi compagni della Masia a manifestare (e affinare) la sintassi prodigiosa della sua corsa e della sua tecnica. Vent’anni di successi e di crescente ricchezza-responsabilità affettiva (i tre figli, il matrimonio), ma anche di lutti e passaggi difficili e dolorosi (la perdita del suo primo mentore Tito Vilanova;
due Mondiali diversamente falliti con l’allungarsi permanente dell’ombra del Pibe de Oro; la condanna — seppure «patteggiata» — per i reati fiscali operati dal padre) l’hanno insieme rafforzato e disilluso. L’adolescente semi-autistico — pur conservando alcuni suoi tratti eternamente infantili — è diventato lentamente un uomo, insieme risolto e tormentato.
Non solo. Sono vent’anni in cui è anche cresciuta via via esponenzialmente la sua influenza — la sua capacità di condizionamento — nel Barça, con un’estensione della sua leadership dal campo all’ ambito societario e la sua «voce» spesso consultata nella scelta dei tecnici e nelle opzioni di mercato. Una sintesi iconica del processo può essere resa dal crescendo delle diverse case: l’appartamento — già generoso — di Gran Via de Carles III (prossimo al Camp Nou), quello della sindrome da abbandono e della «stanza del pianto»; la villetta con giardino nel lussuoso sobborgo collinare di Castelldefels, a 50 metri da quella del suo idolo (e secondo mentore) Ronaldinho; lo «sviluppo» della stessa nell’ avveniristica casa-stadio progettata da Luis de Garrido.
Un’influenza, però, nelle ultime stagioni indebolita e intaccata, come mostrano cessioni e acquisti (Neymar e Griezmann) o avvicendamenti tecnici (Setién per Valverde) non graditi alla Pulce. Una «lesa maestà» che ha fatto da detonatore all’attuale «crisi» del rapporto: non la prima, ma certo — per vari fattori, a cominciare dall’età del giocatore — la più acuta.
Dall’altro, appunto, la metamorfosi del Barça. Quando Messi affronta il suo tortuoso ingresso nel club (tra fan immediati e osteggiatori scettici) siamo nel pieno del lungo mandato di Joan Laporta (2003-2010), il presidente amico-sodale di Cruijff e poi sostenitore-promotore di Pep Guardiola. La situazione comincia a mutare — come racconta Cruijff stesso nella sua autobiografia — col passaggio della poltrona al successore (e a lungo vice) di Laporta, Sandro Rosell (i due avevano già avuto contrasti in precedenza, quando Rosell — dirigente della Nike Sud America — voleva portare Scolari al Barça al posto di Rijkaard:
tecnicamente e «filosoficamente» una bestemmia). Con Rosell — riassume Cruijff, che si dimette quasi subito da Presidente onorario — rientra nel club «la politica», nel dettaglio il profilarsi di una «vendetta» (tra ragioni ideologiche e di potere) verso la gestione precedente, tanto che Rosell vorrebbe cambiare tecnico e impostazione tattica, impedito nell’intento solo dai successi di Pep (e dalla radiance del suo gioco).
Con l’avvento di Josep Bartomeu (a sua volta vice di Rosell nel 2010-14 e capace di sconfiggere una ricandidatura di Laporta nel giugno 2015), il conflitto tra fazioni sale ai livelli della faida, come riassume l’affaire nero svelato da Cadena Ser (e su cui è tornata in queste ore la polizia catalana): il milione di euro versati da Bartomeu e dall’attuale board alla società I3 per screditare via social Messi, Xavi, Guardiola: la quintessenza del Barça erede di Cruijff.
Del resto, a sintesi di tutto può valere la testimonianza del genero dello stesso Cruijff, il portiere blaugrana Jésus Angoy, sui «rapporti pessimi» tra il Padre Fondatore del Barça e Bartomeu. Il crossing over — la metamorfosi incrociata — di Messi e del Barça matura così nel tempo un redde rationem tra la Pulce (il suo Barça) e la presidenza.
Diverse ferite, nello scorso agosto, acuiscono la tensione e irritano/spoetizzano Messi: il 2-8 col Bayern; la cessione — dopo Neymar — di un altro compagno e amico, il Pistolero Suarez, scaricato da Koeman; la stessa frase liquidatoria del nuovo tecnico, suonata alla Pulce come una «lesa maestà» definitiva («I privilegi in rosa sono finiti, sarò inflessibile, devi pensare alla squadra»); frase — peraltro — avventata, tanto da costringere poi Koeman (in coerenza con la linea «realistica» di Bartomeu) a dichiarare di voler ripartire, nel nuovo Barça, proprio dalla centralità di Messi.
In un simile contesto, lo scopo primario di Messi è stato a lungo ed è tuttora quello di rovesciare Bartomeu e il board per ripristinarne uno a lui empatico, il tutto minacciando di andarsene «a costo zero».
Il punto è che quella strategia sarebbe stata possibile (secondo contratto) fino a giugno: dopo quella data (apparsi giuridicamente controversi o quanto meno discrezionali i tentativi di Messi e del padre Jorge di estendere quella possibilità nel tempo, data l’eccezionalità di una stagione dilatata dal COVID-19), la clausola rescissoria di 700 milioni è tornata a stagliarsi come una montagna invalicabile: l’unica, parziale attenuante è che il giocatore non volesse ledere la coda della stagione in corso (Champions in primis).
In quel momento, la Pulce (e il padre) sembrano disunirsi e perdere lucidità, giocando ambiguamente tra l’exit come una minaccia retorica e una possibilità effettiva. Forse, fino a un certo punto credono che la sola ipotesi possa smuovere tifoseria culé e opinione pubblica catalana fino a portare alle dimissioni di Bartomeu. Ma è un’illusione che cade presto: anzi, una parte della stessa tifoseria si scaglia contro il giocatore, tra l’accusa di tradimento e quella di nuocere alla società privandola dell’entrata dei 700 milioni della clausola rescissoria.
Svanita la minaccia retorica, resta solo la ricerca di una possibilità effettiva.
Andarsene, dunque: ma dove?
A lungo, si è parlato di diverse opzioni e delle relative motivazioni/suggestioni, dal PSG (dove Messi avrebbe ritrovato gli amici Di Maria e Neymar) all’Inter (per uno «scontro finale» in terra italiana con CR7).
Ma non c’è dubbio che l’unica ipotesi da subito più percorribile e per molti versi più intrigante sia stata quella di tornare dal «padre» adottivo Pep, dal suo maieuta principe. Un’ipotesi che ha presentato subito aspetti problematici sul piano tecnico ed economico-finanziario, ma che ha retto fino all’ultimo per il rapporto molto particolare tra le due figure in questione. Perché il desiderio — da parte di molti appassionati — di vedere di nuovo insieme il più grande «direttore d’orchestra» del calcio contemporaneo e un «primo violino» che è in realtà, da solo, l’intera sezione degli archi (di sentire di nuovo quel «suono») ha velato il fatto che a ben guardare i loro «piani» per i prossimi anni non siano del tutto convergenti, ma anzi — almeno in parte — confliggano.
Il rapporto con Guardiola, dalle risatine alle lacrime nascoste
Il rapporto tra Pep e la Pulce non è subito empatico. Durante il ritiro scozzese del primo anno di Pep (Saint Andrews, estate 2008), il tecnico impone rigore e disciplina a ogni livello: in campo, in particolare, comincia a impostare i princìpi del suo «gioco di posizione»; princìpi che destano nella Pulce indifferenza e scetticismo, se non irrisione (lo si vede un paio di volte «sghignazzare»). In più, il ragazzo si chiude in uno dei suoi silenzi enigmatici e ricattatori (uno dei suoi proverbiali «musi» allusivi): Pep prova a farlo aprire, ma riceve come risposte solo silenzi reiterati e «sguardi ostili».
Il motivo di quella chiusura ermetica — come il tecnico intuirà in fretta — è il desiderio del giocatore di andare ai giochi di Pechino con l’albiceleste: desiderio frustrato dal divieto del Barça, che vorrebbe impiegarlo nei preliminari Champions. D’accordo con Laporta, Pep darà il placet («Non potevamo permetterci di sottovalutare la sua insoddisfazione») ottenendo due obiettivi in un colpo solo: disporre, al ritorno dai Giochi, di un Messi iper-motivato (con la medaglia d’oro al collo) e conquistare la sua fiducia, impostando un profondo legame affettivo-emotivo. Da quel momento (anche in coerenza con l’insegnamento dell’amico Julio Velasco, per cui «trattare tutti i giocatori allo stesso modo» è una solenne ipocrisia), Pep diventa il vero maestro e confidente della Pulce.
Alcune figure sono state decisive nell’acquisirlo contro le resistenze di parte della società (Charly Rexach, col «precontratto» stilato sul tovagliolo di carta di un caffè del tennis club Pompeya di Barcellona; o Joan Lacueva, direttore del settore giovanile che crede in lui al punto da sborsare di tasca propria i 2000 euro necessari per fargli riprendere la cura di ormoni della crescita iniziata in Argentina); altre hanno cominciato a modularne l’immenso talento verso una maggiore integrazione nelle dinamiche di squadra (Tito Vilanova, il primo a schierarlo come attaccante «totale» e non di fascia); ma è Pep a farlo diventare ciò che è, a determinare le ultime sequenze della trasformazione da crisalide in farfalla.
Un processo che avviene su due versanti tra loro connessi. Il primo è quello tecnico-tattico, con Pep che immola a Messi tutto il fronte offensivo blaugrana di quegli anni (subito Ronaldinho e Deco, poi Eto’o e Henry, poi ancora Ibra, a tacere di promesse come Bojan) ottenendo in cambio l’esplosione delle sue qualità ai massimi gradi, che ne fanno un «giocatore che attraversa i muri» (come si diceva del rugbista Barry John) in una squadra che i muri li attraversa col suo possesso-fraseggio «quantistico».
L’altro è il versante atletico-fisiologico e comportamentale-psicologico, con Pep che educa Messi a diete più sane e a «ascoltare il proprio corpo» per prevenire infortuni fino a quel momento troppo frequenti (per esempio insegnandogli a «dosare» le accelerazioni-diversioni da velocista, molto dispendiose sul piano respiratorio e lattacide), ma che affina a sua volta la capacità di decifrare i silenzi e il codice sfingeo della Pulce (le risposte a monosillabi, gli sguardi sfuggenti o aperti, e così via).
Ne deriverà — ben compendiata in una toccante foto da spogliatoio (che vedete qui sopra) — una sintonia ai limiti della dipendenza reciproca: per Pep, dal massimo interprete del suo calcio sinfonico (l’esecutore-moltiplicatore ideale della concezione secondo cui «il centravanti è lo spazio»); per Messi, da un concertatore-maieuta senza pari, l’unico in grado di empatizzare in modo «molecolare» con la sua tecnica di calciatore-violinista e con le sue discontinuità umorali.
Tutto si condensa nel giorno dell’addio di Pep, 27 aprile 2012: dopo la seduta di allenamento, il tecnico in una conferenza affollata ratifica l’exit, spiegandolo con l’esaurirsi di energie nervose e motivazioni. Tutti i presenti rimangono colpiti da un fatto: tra i giocatori in ascolto (a partire dai capitani: Valdés, Xavi, Iniesta e Puyol) manca proprio la Pulce.
Alla prevedibile richiesta di spiegazioni, Pep mette una pezza romantica, riferendosi anche ai tanti sms ricevuti dal giocatore in quei giorni («Leo è qui! È qui! E in questi giorni ho ricevuto grandi dimostrazioni di affetto»); e più tardi circolerà una giustificazione «logistica» (su un «difetto di comunicazione» tra giocatori).
In realtà, un post-Facebook della Pulce di qualche ora dopo sembra chiarire in altro senso: «Sono immensamente grato a Pep per tutto quello che ha fatto, per la mia carriera e per la mia vita. Sono così emozionato che ho preferito non partecipare all’annuncio ufficiale. Volevo soprattutto evitare la stampa, perché sapevo che avrebbero scrutato i nostri volti in cerca di tristezza. E io voglio mantenere il riserbo sui miei sentimenti». Come molte altre volte (il buio di una stanza, la maglia girata sulla testa) la Pulce occulta il suo pianto; e per un «afasico» come lui, quelle poche frasi hanno la densità di un epos.
La richiesta (impossibile) a Pep
Da allora, Pep e Messi si sono incontrati forse una sola volta, all’inizio del 2013, per il gala del Pallone d’Oro; anche se il loro «dialogo» è proseguito a distanza, attraverso pensieri (ricordi) intimi e periodici, reciproci «esercizi di ammirazione» in pubblico.
Fino alla settimana scorsa, quando la Pulce lo ha chiamato «sondando» un passaggio al City già pensato — lo ricordano in pochi — nell’estate 2016, quando Pep sta per approdare a Manchester e Messi e il padre (ancora storditi dalla sentenza per i reati fiscali) annunciano un’uscita dalla Catalogna poi rientrata. Un precedente «attenuato» del tentativo di questi giorni e dei citati piani (almeno in parte) divergenti.
Da quello che si legge e da quello che arriva per fonti non ufficiali, Pep avrebbe programmato di restare a Manchester fino al giugno 2021, secondo contratto (e secondo prassi, visto che ha sempre rispettato i contratti). Il suo obiettivo principale — dopo la conquista di due Premier-monstre contro avversari-monstre come il Liverpool di Klopp, attraverso un gioco non meno esaltante di quello del Barça — è tentare un’ultima volta la conquista della Champions con una seconda squadra; con un team che non sia il Barça di Xavi, Iniesta e Messi stesso, per mostrare di poter vincere in Europa anche senza di loro.
Dopo di che, prenderebbe in considerazione un rientro in Catalogna per varie ragioni: strettamente tecnico-agonistiche (il quinquennio di Manchester è già un record di permanenza e considera il ciclo inglese, di fatto, esaurito); personali-psicologiche (sembra stanco della pioggia di Manchester e vorrebbe ricomporre la famiglia, ora per lunghi momenti separata, con moglie e figlia spesso a Barcellona); e politico-societarie, coll’intento di rinsaldare nel Barça un ritorno del «partito di Cruijff», se alle elezioni del marzo prossimo Bartomeu sembra destinato a soccombere di fronte a candidati comunque della fazione avversaria (Tony Freixa o lo stesso Laporta).
In questo disegno, ritroverebbe la Pulce tra un anno, per «gestirne» il tramonto in un Barça rifondato e tornato all’identità più profonda. Il tutto dando per scontati passaggi che non lo sono affatto (il transito temporaneo di Koeman) e con ulteriori incognite, insieme eccitanti e destabilizzanti: Pep tornerebbe come coach o con incarichi da «supervisore» dirigenziale, favorendo l’innesto di Xavi in panchina?
La Pulce, da parte sua, ha sperato in un ricongiungimento col Maestro per diversi motivi: andare in un team al momento più strutturato e competitivo di un Barça in disfacimento e in caos da diaspora (De Jong dixit); tentare di rivincere la Champions; tentare di vincere ancora uno-due Palloni d’Oro per distanziare definitivamente CR7 (nel Barça attuale non gli sembrano più alla portata); chiudere la carriera andando contro se stesso, cioè uscendo dalla «placenta» protettiva di Barcellona per una sfida che arricchisca il suo cursus e lo completi non solo come calciatore.
Tutto questo, però, avrebbe impattato sul «piano» di Guardiola con una serie di cortocircuiti.
La sua richiesta — pare —di un triennale «protetto» da Pep avrebbe costretto il tecnico a prolungare innaturalmente di due anni un mandato che considera, come detto, in esaurimento.
Inoltre, l’impossibilità da parte del City di corrispondere i 700 milioni della clausola (oltretutto nell’anno della diatriba sul Fair play finanziario violato) avrebbe costretto la società a uno scambio sanguinoso, con l’uscita di giocatori-cardine all’apice della carriera (vedi Bernardo Silva) e la coazione quasi certa a una panchina corta e carente. In tanti hanno notato come l’acquisizione di Messi — del Messi attuale, va aggiunto, non di un Messi 23 enne — non rappresenti il bisogno primario di una squadra che per arrivare all’agognata Champions dovrà lavorare sulla fase difensiva sia con migliori meccanismi collettivi sia con l’acquisizione di individualità più convincenti (vedi Koulibaly).
Siamo — sia chiaro — alle interpretazioni e alle osservazioni indiziarie. Ma non è improbabile che Pep — pur fortemente tentato dal riabbracciare subito Leo, così come la dirigenza del City, inebriata da un’operazione di così alto valore mediatico-romantico — l’abbia alla fine esortato a un’opzione pragmatico-realistica.
Senza dimenticare due fattori non secondari. Primo: se Pep avesse rivinto (o dovesse rivincere) la Champions di nuovo con Messi, resterebbe per sempre inchiodato, almeno quanto ai risultati, all’addiction dal miglior giocatore allenato; né varrebbe, come contro-argomentazione, il fatto che anche Messi senza Pep ne abbia vinta solo una nel 2015, a tacere dei deragliamenti in Nazionale.
Secondo: da catalano e barcellonista doc, non soffierebbe a cuor leggero il calciatore-mito alla società cui deve tutto, e dove — presto o tardi — tornerà in pianta stabile. Un «tabù» che si sposa — a convergenza — con quello espresso dalla Pulce nel comunicato finale: «Non potrei mai andare in tribunale contro il club della mia vita».
Il destino del «grande argentino» del Barça
Alla fine, la permanenza obtorto collo di Messi a Barcellona — di fatto uno «stand by» annuale — sembrerebbe convenire a tutti. Al City, per i motivi (soprattutto tecnici) di cui s’è detto; a Bartomeu e all’attuale board, che eviteranno di passare direttamente dalla cronaca alla Storia solo per aver perso il più grande calciatore della parabola blaugrana; a Koeman, che al di là delle avventate dichiarazioni iniziali avrà un bisogno disperato della Pulce, specie in un Barça in declino. Forse, il più penalizzato da questa situazione sarà proprio Messi, che — al netto, chi sa, di un’ulteriore «adeguamento» economico — rischia in effetti di sprecare un anno; e un anno, alla sua età agonistica, vale doppio o triplo.
In fondo, però, si può vedere in tutto questo — nell’eventuale costrizione, per Messi, a concludere la carriera in blaugrana — un senso di esattezza, di «necessità», almeno a posteriori.
Dei tre grandi argentini (tre dei primi dieci, secondo molti addirittura dei primi cinque, nel Pantheon globale di sempre) uno ha solo lambito il Barça (Di Stefano, poi diventato emblema del primo Real «galactico») e un altro è transitato brevemente e in modo drammatico (Maradona, poi diventato leggendario in un altro teatro, il San Paolo di Napoli). Non per generico «destino», ma per un intreccio preciso di forze e fattori (la tenacia della Pulce stessa e di chi lo ha sostenuto, Pep in testa; il momento storico del club; la convergenza con altri grandi giocatori blaugrana compatibili con lui), il «grande argentino» del Barça doveva essere lui — nessun altro.
Per approfondire
Guillem Balague, Pulce, Piemme, 2014; edizione aggiornata 2018 nel volume con la biografia di Ronaldo (sempre Piemme).
Johan Cruyff, La mia rivoluzione (L’autobiografia), Bompiani, 2016, in tascabile 2018.
messi bartomeuLEO MESSI E BARTOMEU