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MA È VINO O UN BENE DI LUSSO? - UNA BOTTIGLIA DA SEI LITRI ROMANÉE-CONTI 1985 DELL’OMONIMO DOMAINE È STATA VENDUTA A 900MILA EURO A LUGANO, COMPRATA PROBABILMENTE DA UN RUSSO: FA PARTE DELL’1% DEI FIUMI DI VINO GENERATO NEL MONDO CHE ENTRA NELLA CATEGORIA DEI "FINE WINE", CIOÈ I VINI DI LUSSO, CHE NELL'ULTIMO DECENNIO HANNO VISTO CRESCERE IL PROPRIO VALORE DEL 147%, CON RENDIMENTI ANNUI INTORNO AL 13% - IL CLUB DEGLI "ELETTI" RIGUARDA SOLO LA FRANCIA E I PRODUTTORI ITALIANI...

Piera Anna Franini per “il Giornale

 

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Una bottiglia da sei litri Romanée-Conti 1985 dell’omonimo Domaine è stata venduta a 900mila euro. È successo a Lugano, qualche mese fa, a comprarla un miliardario dell’Est, probabilmente russo.

 

Era una delle sei Mathusalem (così si chiama il formato) della casa di Borgogna che faceva parte della collezione di Giorgio Pinchiorri. Si è sfiorato invece il mezzo milione per un Romanée-Conti Grand Cru del 1945 e per un Domaine Leroy Musigny Grand Cru 1990.

 

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Più che prezzi, quotazioni da banca d’affari. E la lista dei vini dalle valutazioni stellari di anno in anno si allunga. In casi del genere considerare il vino un bene da consumo è riduttivo, meglio ragionare in termini di bene rifugio.

 

E infatti c’è chi del vino si occupa, non come prodotto da degustazione, ma come puro investimento finanziario. In realtà solo l’1% dei fiumi di vino generato nel mondo entra nella categoria dei «fine wine», vale a dire i vini di lusso, che stando al Knight Frank Luxury Index nell'ultimo decennio hanno visto crescere il proprio valore del 147%, con rendimenti annui intorno al 13%.

 

POCHI ELETTI

Quell'1% dei vini mondiali, la categoria dei «fine wine» è costituita dalle bottiglie di due aree francesi, Bordeaux e Borgogna. In terza battuta, ma a grande distanza, ci sono i produttori italiani.

 

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È il mercato a stabilire chi entra nel novero dei «fine wine» e per rendere il mercato più trasparente, limitando l'effetto Far West, nel 2000 gli agenti di Borsa James Miles e Justin Gibbs hanno istituito Live-Ex, acronimo di London International Vintners Exchange, ora riferimento mondiale per lo scambio e la quotazione dei vini da collezione, sono coinvolti oltre 530 membri la cui attività si stima rappresenti il 95% del fatturato dei vini di lusso.

 

«Era naturale che Liv-Ex nascesse a Londra», spiega Justin Gibbs. «Obbligazioni, valute, azioni e materie prime sono state scambiate in questa città più a lungo che altrove. La lingua, il fuso orario, lo stato di diritto e la trasparenza hanno fatto la loro parte. Si aggiunga la presenza di uno dei più grandi bacini di collezionisti di vini pregiati. Anche se di recente sono saliti alla ribalta gli Usa , assai abili nell'usare la tecnologia».

 

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Il prodotto di lusso è dunque franco-italiano, ma è lungo l'asse anglo-americano che crescono società di investimento e di commercio di vini da collezione. E la crescita dei prodotti finanziari legati al vino appare talvolta incontrollata. «Ormai prima di scegliere bisogna fare una seria due diligence», dice Gibbs.

 

«Se si tratta di un fondo è fondamentale capire la metodologia di investimento, l'orizzonte temporale e la strategia di uscita. Quanto facilmente si possono ritirare i soldi e a quale costo? Come viene misurata e premiata la performance?».

 

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Attenzione, poi, alla contraffazione, un fenomeno - riferisce WineNews - che genera affari da 15 miliardi di dollari per i soli «fine wine» e interessa 1 bottiglia su 5, con e senza blasone.

 

Lo scettro dei truffatori più fantasiosi va a Hardy Rodenstock che era uso organizzare cene e degustazioni alla Luigi Re Sole con critici di fama, compreso il numero uno Robert Parker, collezionisti, appassionati per far conoscere le sue incredibili scoperte.

 

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Tra queste, le bottiglie che, assicurava e vendette a prezzi stellari, erano appartenute (qui la truffa) al presidente americano Thomas Jefferson. «I suoi preferiti - racconta Wine Spectator - erano i vini del 19° secolo, sosteneva che i pre-fillossera fossero superiori». O forse semplicemente prediligeva le epoche in cui i registri di vini non erano meticolosi offrendo così margine alle sue manovre.

 

Il caso Rodenstock, ma anche le prodezze di Rudy Kurniawan, sulle cui tracce si pose l'Fbi sventando una truffa da 550 milioni di dollari, fa riflettere su due questioni. La prima riguarda l'esistenza di mondi paralleli e non sempre comunicanti: di qua i critici, i narratori a vario titolo e i professionisti del marketing; di là, la scienza applicata e la produzione, mani che si sporcano fra terra e cantina.

 

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La seconda questione riguarda la longevità del vino: critica e marketing ne fanno una nota di merito del prodotto, senza particolari distinguo. Ma il vino è materia viva: nasce, cresce, splende e muore, non è un violino Stradivari che di secolo in secolo affina le prestazioni, semmai ricorda un pianoforte che a un certo punto diventa insuonabile.

 

Che senso ha, dunque, l'investimento in bottiglie così agée da essere l'ombra del proprio passato? «Qui sta il punto», spiega Anthony Zhang, Ceo e cofondatore della piattaforma d'investimento americana Vinovest.

 

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«Per i collezionisti il vino non è un prodotto da bere, ma da collezionare». Justin Gibbs sostiene invece che i grandi vini di grandi annate sono consumabili nonostante l'età avanzata, «un Latour 1961 ben conservato, uno Cheval Blanc 1947 e Yquem 1921 troveranno sempre degli acquirenti», dice. Così ragiona il marketing.

 

Ma cosa dice la scienza, quella ferrata in viticoltura ed enologia? Può rispondere al quesito chi - nomen omen studia con rigore, e criteri oggettivi, il mondo del vino: Attilio Scienza, docente di viticoltura alla Statale di Milano, autore di 350 pubblicazioni scientifiche e di 15 libri.

 

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«Il successo sul mercato dei più famosi Chateaux di Bordeaux - spiega Scienza è in gran parte legato alle loro capacità di mantenere inalterate per molto tempo le caratteristiche organolettiche, di freschezza e di tipicità. Questo è il risultato dell'interazione di fattori intrinseci (vitigno, composizione polifenolica, resa ad ettaro...) ed ambientali (andamento climatico durante la maturazione).

 

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In questi ultimi anni, l'innalzamento delle temperature, anche nell'ambiente atlantico di Bordeaux, ha accelerato i fenomeni di maturazione delle uve compromettendo, in alcune annate, le possibilità di invecchiamento. Il processo evolutivo si è fatto più precoce e fa perdere freschezza al vino per effetto dei processi di ossidazione».

 

Proprio la Facoltà di Enologia di Bordeaux ha individuato un composto chimico che consente di stimare la durata probabile delle bottiglie nel tempo. Un vino da invecchiamento - continua il Professore - «si caratterizza per la sua attitudine a preservare gli aromi del vitigno e del terroir da cui deriva ed a sviluppare delle note aromatiche particolari (empireumatiche, minerali, tartufo) che costituiscono il "bouquet" dei grandi vini».

 

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È questo l'invecchiamento ideale, che però non è la norma. «La maggior parte dei vini perde rapidamente il tipico aroma fruttato. Uno dei processi più importanti del vino in evoluzione è la lenta ossidazione. Il colore è l'indicatore più evidente dell'invecchiamento, con il tempo diventa color mattone e infine vira verso una tonalità marrone.

 

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Un vino bianco giovane che vira dal limone chiaro al giallo più intenso, all'oro e infine verso un colore bruno a volte sgradevole. Un vino giovane mostra aromi e sapori primari: i sapori di frutta fresca o fiori.

 

Con il tempo, gli aromi e i sapori primari svaniscono e le caratteristiche secondarie iniziano a diventare più pronunciate: burro, caffè, pane cotto e così via diventano molto più evidenti. I vini invecchiati per molti decenni presenteranno aromi terziari: toni di terra, funghi, noci, note legnose».

 

UN MONDO VARIABILE

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Un enologo di ultima generazione, Nicola Berti, vede una situazione in cambiamento: «Un vino mantiene le proprie caratteristiche nel tempo se c'è equilibrio delle componenti, acida, tannica, polifenolica, così come è fondamentale la qualità delle uve. I cambiamenti climatici degli ultimi 15 anni ci obbligano ad interpretare le annate con molta più variabilità rispetto al passato.

 

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Tra la metà degli anni '70 e '80 nel Barolo, Chianti Classico o Montalcino il raggiungimento di maturazioni più regolari era relativamente semplice e si potevano ottenere vini che raggiungevano la piena maturità dopo i 10 anni ed erano perfetti fino ai 20.

 

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Oggi, le più affinate pratiche agronomiche e enologiche hanno creato le condizioni affinché il vino abbia tutte le possibilità di essere apprezzato da subito mantenendo le proprie caratteristiche nel tempo. Non possiamo più chiedere al consumatore di aspettare per bere un vino equilibrato, con un orizzonte fra i 10 e i 15 anni».

 

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