FIAT: FU ITALIANA A TORINO - DOMANI, CON LO SPOSTAMENTO DELLA SEDE DEL LINGOTTO ALL’ESTERO, SI CHIUDERA’ UN’EPOCA PER LA NOSTRA INDUSTRIA…

Gianni Barbacetto per "Il Fatto Quotidiano"

Villa Frescot, un tempo casa dell'Avvocato sulla collina, è vuota. John Elkann vive con moglie e figli a Milano. Vendute o in vendita la casa del fondatore Giovanni Agnelli (poi diventata sede della Fondazione) e quella in Corso Matteotti di Edoardo Agnelli, di sua moglie Virginia e dei ragazzi che vestivano alla marinara. Gli Agnelli hanno già lasciato Torino. E i loro interessi maggiori sono ormai in Asia o in America.

Domani anche la Fiat abbandona la città della Mole, per porre la sua sede legale in Olanda o nel Regno Unito (mercoledì il cda). Un colpo, per la Torino che era tutt'uno con la Fiat. "Ma chi l'ha detto che la Fiat se ne va?", reagisce il sindaco Piero Fassino. "Importante non è dov'è la sede legale, ma dove si produce. E la produzione resta qui". Si concentrerà sulla fascia medio-alta: Maserati, Alfa, la filiera 500, i Suv...

Sergio Chiamparino, ex sindaco e ora candidato a presiedere la Regione, prova a bloccare i catastrofisti: "Lo spostamento della sede è un vulnus simbolico, ma è il punto d'arrivo di un processo in corso da anni. L'importante è che Torino resti la testa della parte europea del nuovo gruppo che nascerà con Chrysler. Perché questo vuol dire indotto, vuol dire che resteranno qui i servizi finanziari, organizzativi, legali. È una battaglia che possiamo vincere".

Quello tra la Fiat e la città è un lungo addio, iniziato almeno vent'anni fa. "La città fordista, negli anni ‘70, era un intreccio genetico-biologico tra Torino e Fiat. La città era una cosa sola con la sua fabbrica", ricorda il sociologo Giovanni De Luna. "Torino era il ritmo della produzione di auto, con i suoi tre turni e 130 mila operai, di cui 70 mila a Mirafiori.

Oggi sono 5 mila. Ma non c'è stata una rottura traumatica, come aveva immaginato Oddone Camerana nel suo romanzo Il centenario. C'è stato invece un lungo addio, iniziato il 14 ottobre 1980, giorno della marcia del 40 mila, e ancora non terminato. La Detroit italiana, la città di Gramsci e Go-betti è svanita con le nebbie del 900. Torino è diventata un'altra cosa, ma ha metabolizzato la sua inevitabile trasformazione".

Che cosa è diventata? Difficile dirlo, la trasformazione è ancora in corso. "Siamo da anni su un piano inclinato", dice Giorgio Airaudo, sindacalista Fiom oggi parlamentare Sel. "La Fiat ha realizzato la conquista dell'America, la denazionalizzazione di un'azienda italiana, riposizionata sul mercato internazionale.

Ma gli operai torinesi non li porta con sé in America. A Torino resta l'impoverimento. Non possiamo consolarci con la Maserati e il lusso: porta scarsa occupazione e debole indotto. La politica italiana ha accettato il piano inclinato senza provare a negoziare. Marchionne va in America perché ha negoziato con Obama. Qui non c'è stato alcun interlocutore, non Berlusconi, non Monti, non Letta".

"Hanno creduto alle balle dei piani e degli investimenti, senza mai chiedere conto di quanto promesso", dice Diego Novelli, sindaco della Torino ancora fordista. "E la Fiat che va a mettere la sede dove si pagano meno tasse mi ricorda che gli Agnelli ce l'hanno sempre avuto il vizietto di non pagare le tasse: negli anni ‘60, da cronista dell'Unità, ho scoperto che non avevano pagato al Comune per anni quella che allora si chiamava imposta di famiglia".

"Quella sulla sede è una disputa provinciale", taglia corto Bruno Manghi, sociologo, ex sindacalista della Cisl. "Si è creato un vuoto di 80-90 mila posti di lavoro nel settore dell'auto che non ci saranno più. Liquidato Vittorio Ghidella, arriva Cesare Romiti, con il mandato della famiglia a diversificare e a investire meno sull'auto. Proprio mentre la famiglia Ford investiva invece massicciamente sull'auto per affrontare la battaglia mondiale. Risultato: a Torino sono nati modelli non competitivi ed è stato l'inizio del declino".

A Mirafiori si producevano sette modelli, oggi uno solo. Domani chissà. "Il primo Marchionne", ricorda Airaudo, "ha trovato come interlucutori Chiamparino e Mercedes Bresso, che riescono a tenere aperta Mirafiori grazie a un accordo su alcune aree Fiat. Poi il secondo Marchionne, Marchionne l'Americano, parla direttamente con Obama e va negli Stati Uniti. La politica dell'auto si fa con i governi come interlocutori: in Francia l'ha fatta Sarkozy, in Germania Marchionne ha trattato sulla Opel con la Merkel, prima di puntare sugli Usa.

E pensare che General Motors è venuta a Torino a studiare i nostri motori e il suo centro di ricerche è qui, di fianco al Politecnico. Fiat invece da anni non produce più motori a Torino". "È il fallimento dei governi e delle giunte di sinistra", per Mino Giachino, ragazzo terribile di Forza Italia. "Nel 1980 il Pil del Piemonte era il 10 per cento del Pil nazionale. Oggi è il 7. La sinistra dei salotti si è illusa di sostituire l'industria con il turismo, la cultura, il cinema. Oggi, denuncia il vescovo Cesare Nosiglia, la metà Torino che sta bene non si accorge dell'altra metà che è impoverita".

Per Airaudo, "è chiaro che il mercato e l'impresa da soli non ce la faranno a farci uscire dalla crisi. Ci sarebbe bisogno di nuove politiche pubbliche, ma non vedo le idee né la classe dirigente per realizzarle". "La città è già cambiata , in questi vent'anni", constata Chiamparino. "Ma non è in declino. Abbiamo subìto gli effetti della crisi, ma abbiamo cercato di accompagnare la trasformazione. Turismo, cultura, agroalimentare... certo, non possono sostituire l'industria. Ma resta a Torino l'aeronautica, l'aerospaziale, la meccatronica, l'automotive... Siamo ancora una città in transizione. Difficile dire dove arriveremo".

 

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