NON DITE AI SOCI RCS ELKANN-MARPIONNE CHE IL “CORRIERE” LI ROTTAMA - “LA FIAT DI OGGI È UN GRUPPO IN AFFANNO PROGETTUALE, CON UN DEBITO ALTO. I SUOI AZIONISTI, DOPO AVER TANTO SBAGLIATO CON AGNELLI, NON VOGLIONO PIÙ INVESTIRE NEL LORO PRIMO PRODOTTO, L' AUTO - UNA SCELTA FINANZIARIA LEGITTIMA, MA ATIPICA NELL' ITALIA INDUSTRIALE - LA FIAT OGGI FA ARBITRAGGIO INTERNAZIONALE DI REGOLAZIONI PUBBLICHE, AIUTI DI STATO ESTERI E RELAZIONI SINDACALI. LO FANNO TUTTE LE MULTINAZIONALI. MA C'È MODO E MODO…”

Massimo Mucchetti per il "Corriere della Sera"

Orfana della Fiat, che cosa sarà di Confindustria? La risposta dipende principalmente dal destino di questo gruppo che per tanti anni ne ha ispirato la leadership, ma anche da come l' associazione governerà le sue contraddizioni. Il rapporto tra la Fiat e l' industria italiana, diciamolo in premessa, non è più quello di un tempo. Tra il 1945 e la fine degli anni 80, la Fiat di Valletta, del primo Romiti e di Ghidella trainò la modernizzazione del Paese, riorganizzando la produzione e le relazioni sindacali.

Poi, mentre cadevano le ultime barriere protezionistiche, iniziò a declinare. E non fu la sola tra le grandi imprese. Nel frattempo, l' Italia industriale si era riorganizzata nei distretti e nelle multinazionali tascabili, capaci di ritagliarsi nicchie vincenti nei mercati mondiali. Questa nuova Italia, incompresa dai partiti e dagli economisti, insediò Antonio D' Amato alla presidenza di Confindustria proprio contro la Fiat.

Ma, essendo a sua volta priva di cultura politica, si illuse su Silvio Berlusconi e fu l' errore che nel 2004 riconsegnò la Confindustria a un uomo Fiat. Ora, come se la presidenza concertante di Montezemolo fosse stata un'equivoca parentesi (e lo stesso Montezemolo sembra autorizzare il dubbio con le sue timidezze quando si parla di Torino), è la Fiat ad abbandonare la Confindustria. Ma la Fiat di oggi non è più l' alfiere di una modernità forte che sa unire il Paese. È un gruppo in affanno progettuale, con un debito alto.

I suoi azionisti, dopo aver tanto sbagliato con Giovanni Agnelli e tanto pagato (questo va detto), non vogliono più investire nel loro primo prodotto, l' auto. Una scelta finanziaria legittima, ma atipica nell' Italia industriale che si ostina ad amare le sue fabbriche più delle sue ville. La Fiat oggi fa arbitraggio internazionale di regolazioni pubbliche, aiuti di Stato esteri e relazioni sindacali. Lo fanno tutte le multinazionali.

Ma c' è modo e modo. Per la sua debolezza, la Fiat fa questo arbitraggio sfidando l' Italia a seguirla al ribasso anziché coinvolgerla in un piano serio (dove sono i modelli nuovi e ottimi?) come invece fa Volkswagen in Germania. È da questa modernità debole che viene la sfida vera per Confindustria, non dal fastidio di Torino per le burocrazie dell' Eur, che c' erano anche prima.

Nella Confindustria del 2011 coesistono monopoli o quasi monopoli pubblici e privatizzati (Poste, Ferrovie, Eni, Enel, Telecom, Atlantia), imprese assistite (molti produttori di elettricità, per esempio), manifatture in regime di concorrenza perfetta.

L'uscita della Fiat sbilancia la Confindustria verso i soci parastatali, ancorché i 160 mila soci piccole e medi erano e restano la maggioranza. Ne accentua la fragilità sul fronte delle liberalizzazioni pesanti, che possono giovare ai piccoli. E così, se avranno successo, gli arbitraggi deboli della Fiat diventeranno una tentazione per gli azionisti delle imprese associate in difficoltà in Italia.

Sia chiaro: per i singoli potrà anche essere una soluzione assennata, ma per un ceto sociale, che ha una grande responsabilità nel e verso il Paese, potrebbe essere il tramonto. Sarebbe una sconfitta per tutti.

 

John Elkann con MArchionne Massimo Mucchetti - Copyright PizziEmma Marcegaglia FIAT mirafiori

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